La storia fa parte dello studio promosso da INSH e FISM che raccoglie racconti di operatori sanitari che si sono ammalati di COVID-19
«Era domenica 8 marzo, me lo ricordo molto bene quel giorno… Era una giornata di sole e io avevo deciso di andare a fare una passeggiata in una tenuta molto frequentata della zona, ricevetti la chiamata della dottoressa con cui collaboravo in quel periodo. Mi chiamò per dirmi che aveva fatto il tampone quel venerdì ed era risultato positivo, nei giorni precedenti ci eravamo viste e avevamo lavorato a stretto contatto senza uso di presidi, perché ancora si sapeva poco e niente di quel virus». Inizia così la storia raccontata da una giovane infermiera 33enne che ha provato sulla propria pelle l’esperienza Covid-19.
Una delle storie raccontate dallo studio promosso da Italian Network for Safety in Health Care (INSH) e della Federazione delle Società Scientifiche Mediche Italiane (FISM), in collaborazione con la Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri, l’Ordine delle Professioni Infermieristiche Interprovinciale Firenze Pistoia, la Fondazione Italia in Salute, l’International Society of Quality in Health Care (ISQua), il Dipartimento di Scienze Sociali Politiche e Cognitive dell’Università di Siena e l’Australian Institute of Health Innovation (AIHI) della Macquarie University di Sidney.
Uno studio per tenere traccia delle esperienze di vita dei professionisti sanitari
«Lo studio, che raccoglie racconti di operatori sanitari che si sono ammalati di COVID-19, si propone come obiettivo quello di raccogliere almeno 100 storie per dare evidenza e tenere traccia delle esperienze di vita, sia personale che professionale, degli operatori sanitari che da professionisti, nello svolgere il loro lavoro di assistenza con impegno, passione e abnegazione, si sono ritrovati essi stessi a essere pazienti – spiega la dottoressa Michela Tanzini, socia INSH -. Allo stato attuale sono state raccolte 50 storie in tutto il mondo di cui 21 in Italia, raccontate da medici (62%), infermieri (24%), altri operatori (9%) e volontari (5%)». Gli operatori sanitari interessati a partecipare con il racconto della propria storia possono scrivere a: info@insafetyhealthcare.it
La storia dell’infermiera cha ha contratto il Covid
«Quando riattaccai il telefono, mi allarmai subito e avvisai i miei genitori con cui vivevo, i pensieri erano tanti e l’ansia a mille – prosegue il racconto -. Scappai immediatamente a casa e mi misi in quarantena in camera mia, adottando le misure di protezione e di disinfezione. Ci fu un giro di chiamate infinito. Iniziai con l’ufficio di igiene che mi chiese se avevo sintomi, cosa che non avevo ancora, e con chi ero stata in contatto, tra cui i miei genitori e i vari pazienti a cui avevo prestato assistenza a domicilio e perciò gli mandai i nomi e cognomi di queste persone. Il giorno dopo iniziarono i sintomi classici, tosse secca e febbre a 38,5°C, dolori muscolari in tutto il corpo».
Ma la febbre non accennava a scendere. «Perciò di mia iniziativa presi la Tachipirina che mi alleviava i dolori muscolari e mi faceva scendere la febbre per qualche ora, ma poi risaliva sempre. Martedì 11 feci il tampone, che in seguito risultò positivo, nel triage esterno dal reparto infettivi di La Spezia. Fisicamente ero distrutta, non mi reggevo sulle mie stesse gambe, la dottoressa mi disse che non poteva ricoverarmi perché il reparto era al completo ma che se i sintomi fossero peggiorati di chiamare il pronto intervento».
Il ricovero in ospedale
«Il 17 marzo chiamai l’ambulanza perché i sintomi non erano scomparsi e in più iniziavo ad avere una leggera pesantezza al petto. Lo stesso giorno mi ricoverarono all’ospedale Sant’Andrea per addensamento polmonare destro. In ospedale c’era solo e nient’altro che paura, tensione e delirio, nonostante il personale di reparto si dimostrasse sempre gentile e comprensivo. Iniziai immediatamente la terapia che consisteva in tre antivirali (Darunavir, Ritonavir, Tamiflu), un antibiotico (Zitromax), e il famoso Plaquenil. Mi somministrarono anche ossigeno a pochi litri. In quei 3 giorni si manifestarono gli effetti collaterali della terapia, tra cui dissenteria che mi portai avanti anche dopo la dimissione, che avvenne il 20 marzo».
La negativizzazione nella struttura ‘fantasma’
«Il 20 marzo mi portarono all’ospedale militare (ex Falcomatà), una struttura che era destinata agli studenti universitari, ma che invece inaugurai io e, insieme a me, un’altra signora. Mi portarono lì perché comunque i tamponi che avevo fatto in ospedale erano ancora positivi e non potevo rischiare di tornare a casa, visto che entrambi i miei genitori erano risultati negativi ai tamponi. La prima notte è stata difficile: ero da sola, senza nessuno a cui chiedere aiuto in caso ne avessi avuto bisogno. Più i giorni passavano e più la struttura si riempiva di altre persone come me, non avevamo altri contatti se non tra di noi, ovviamente sempre adottando le misure di distanza e di protezione. Il senso di isolamento si faceva sentire sempre di più ed essere rinchiusa tra le quattro mura non era piacevole».
Una permanenza durata due settimane
«I medici e gli infermieri ci facevano visita due volte al giorno, misuravano la saturazione e la temperatura, ci chiedevano come stavamo e che sintomi avevamo ancora. Mi dissero inoltre che appena avessi finito la terapia, avrei potuto rifare i due tamponi orofaringei a distanza di 24 ore, cosa che successe il 31 marzo e il 1 aprile. Il 3 aprile venni dimessa e potei tornare a casa, vedere i miei genitori e tornare a dormire nel mio letto, un’emozione unica e indescrivibile».