Esperienza Covid Terapia Intensiva: la testimonianza di Francesca D’Amelio

La risposta del Blocco Operatorio alla Pandemia nelle parole dell’infermiera dell’ospedale San Jacopo di Pistoia

 

Era sabato 7 Marzo 2020, ero di pomeriggio in recovery room (la sala del risveglio dell’anestesia) ed abbiamo avuto l’ordine dalla caposala di svuotare il corridoio Rosso  e allestirlo a terapia intensiva.

Il corridoio rosso è la parte più esterna del blocco operatorio, l’unico che ha le porte anticendio che potevano chiudere per isolare l’area dal resto del blocco; era composto da un corridoio con tre fonti di Ossigeno e aspirazione al muro e dall’altro lato tre sale: la sala M (utilizzata come magazzino), la sala N (utilizzata precedentemente come sala di endoscopia) e la sala I (utilizzata precedentemente come sala di oculistica).

In ogni sala sono stati allestiti due posti letto intensivi e i nostri carrelli quadrati (usati per gli interventi) a carrello della biancheria e dell’igiene. Per un totale di sei posti letto intensivi.

Gli armadi fuori dalle sale improvvisati ad armadi dei farmaci e come forma di deposito per il numeroso monouso dei pazienti.

É stato una rapida fall-out e dovevamo aumentare i posti letto, per cui abbiamo occupato anche le tre fonti di Ossigeno del corridoio con tre ventilatori e tre letti… un po’ forzati, ma eravamo in emergenza, ed era più importante curare.

Tra l’altro, nella routine, la disposizione unità/paziente intensivo sarebbe due pazienti per ogni infermiere ma eravamo in guerra e non c’era tempo per discutere c’erano in ballo le vite: per cui ad ogni turno uno di noi doveva tenere tre pazienti.

Lavoravamo tipo ospedale da campo, nel corridoio avevamo solo tre fonti di Ossigeno al muro per cui ci avevamo collegato i ventilatori, mentre per indurre all’anestesia ed intubare il paziente utilizzavamo la bombola di Ossigeno da viaggio.

Inizialmente nella prima ondata, eravamo noi ad andare nei reparti con l’anestestita ad intubare i paziente peggiorati rapidamente e che necessitavano della terapia intensiva, con spazi piccoli, difficoltà logistiche ed intubazioni difficili… entravamo in questi reparti molto spaventati, vestiti da astronauti, sembrava una realtà surreale…

E poi assistevamo alle ultime telefonate dei paziente ai familiari, in cui si salutavano in attesa di essere curati in terapia intensiva.

Era la parte più dolorosa, rassicuravamo il paziente che presto si sarebbe risvegliato e sarebbe stato meglio con un “arrivederci” e ogni volta scongiuravo con tutto il cuore che la persona che avevo salutato potesse guarire e svegliarsi di nuovo.

Nella prima ondata c’è stato un momento in cui, data l’alta quantità di farmaci che i paziente facevano e dato l’elevato numero di pazienti, stava per finire il propofol, il farmaco utilizzato per far dormire i paziente.

Estar non ce ne mandava a sufficienza perché mancava a livello nazionale per l’elevato consumo, allora il nostro primario il dott Barontini ha attuato un altro piano di emergenza, un farmaco ipnotico che potesse sostituite in diprivan: il midazolam, una benzodiazina e abbiamo sostituito il farmaco.

Poiché per un momento c’è stato il rischio che potesse esaurirsi anche questo farmaco, qualora fosse accaduto, avevamo un piano C: utilizzare i gas anestetici per mantenere addormentati i pazienti in attesa di guarigione.

Poi si stava esaurendo il curaro ed è stato trovato un curaro alternativo.

Nella seconda ondata invece, eravamo più organizzati ed avevamo un protocollo.

I pazienti in seguito a dispnea ingravescente venivano accompagnati dalle infermiere del reparto in terapia intensiva. O corridoio rosso, dove il paziente comunque non aveva la consapevolezza di ciò che stava accadendo.

Allora noi “in casa” avevamo modo di aiutarlo di più, rassicurandolo che veniva per un monitoraggio intensivo e nel frattempo lo preparavamo e monitorizzavamo dando 10 minuti di tempo per elaborare la nuova situazione, poi arrivava l’anestesista e comunicava la necessità di dormire per mettere un po’ a riposo i polmoni stanchi… ma non appena possibile lo avremmo risvegliato.

Nella seconda ondata avevamo anche un protocollo che velocizzava lo svezzamento dal ventilatore, attraverso il posizionamento di una cannula tracheostomica in anestesia generale, così il paziente aveva viso e bocca libera e poteva comunicare, era più agevole e meno fastidiosa di un tubo rigido; questa canulina nel collo non era dolorosa e nel gestire meglio l’ansia e le paure del paziente, lui iniziava più velocemente a respirare da solo… ed una volta indipendente le canuline venivano rimosse e in 2/3 giorni il buchino si chiudeva completamente. I paziente venivano dimessi in reparto decannulati.

La nostra tuta era di plastica dello stesso materiale dei sacchi della spazzatura, avevamo doppia mascherina: a contatto con il viso l’ffp2 e sopra la chirugica, la visiera, tre paia di guanti e sovrascarpe.

I primi 5 minuti dovevi imparare a gestire la respirazione perché sembrava di soffocare , preso il controllo della respirazione potevi entrare nell’”Acquario”eravamo rinchiusi come pesci in un ambiente adibito a pressione negativa perché infettivo.

Poi quando ti svestivi: sembrava di essere appena usciti da un lago, la divisa verde di cotone completamente bagnata effetto sauna.

Ognuno di noi doveva fare la doccia prima di uscire da lavoro, e a lungo andare, avevamo  tutti molti dolori da contratture muscolari e disidratazione per le lunghe ore passate nell’acquario.

Cosa ci ha portato questo Covid??

Tanta sofferenza, tanto lavoro, tanta inconsapevolezza delle persone a casa che l’hanno vissuto con leggerezza e neppure adesso riescono ad immaginare il trascorso delle persone ammalate e degli operatori che l’hanno vissuto.

La sofferenza più grande non è stata la disidratazione, il dover stare tante ore vestiti come astronauti oppure la mancanza di aria dovuta alla doppia mascherina… ma il dolore delle persone, soprattutto di coloro che non ce l’hanno fatta.

Ogni giorno, rientravamo a casa spenti, stremati e prosciugati come fiori avvizziti di tutte le nostre forze ed energie e per quanto cercassimo di dare sempre il massimo… i miracoli non ci erano concessi.

Ogni ciclo iniziava con il paziente che in reparto peggiorava e necessitava del ricovero in terapia intensiva; arrivava nel suo letto di reparto accompagnato dalle infermiere con dispnea ingravescente, tanto affanno  e senza avere bene la consapevolezza  di ciò che stava accadendo.

Lo accoglievamo dolcelmente, un po’ alla volta lo monitorizzavamo e parlavamo con lui dandogli il tempo di elaborare la nuova situazione fino a quando l’anestesista di turno doveva comunicargli che avremmo dovuto addormentarlo per aiutare i polmoni stanchi.

Molto spesso questo avveniva di notte.

Ho ancora davanti il pianto improvviso di un ragazzo di quarant’anni, quando ha capito che lo avrebbero dovuto intubare; il suo sguardo disperato in preda al forte scoraggiamento misto alla paura di non rivedere più le sue due bambine. Dopodiché si è lasciato addormentare.

Uomini forti, spesso sulla sessantina di anni, con tutta una vita di coraggio e fatica che avevano   forza nello sguardo e nonostante l’affanno… passavano da soli nel letto della terapia intensiva.

La forza della loro voglia di vivere era più forte della loro paura di morire.

Ma non tutti ce l’hanno fatta a guarire.

Dopo all’incirca 7-8 giorni di sonno profondo e ventilazione forzata iniziava lo svezzamento.

Il paziente piano piano veniva svegliato… era il momento più difficile, perché doveva imparare a respirare di nuovo con un tubo endotracheale o con una tracheotomia.

 Aveva bisogno di molta assistenza e spesso si scoraggiava perciò andava sostenuto e motivato perché solo superata questa fase… sarebbe arrivata la guarigione.

Ad ogni estubazione o decannulazione (se avevano la cannula tracheostomica) ovvero ad ogni dimissione… era gioia in tutta la terapia intensiva e per tutti gli operatori… perché anche noi nel nostro cuore avevamo vinto una delle tante battaglie.

Il ciclo terminava con la dimissione del paziente. Il posto letto una volta vuoto veniva nuovamente riempito con un nuovo paziente, spesso di notte ed il ciclo si ripeteva come in un girone dantesco.

Ricordiamo perfettamente ogni nostro singolo paziente, di cui ci siamo presi cura come si fa con le piante delicate, su cui abbiamo vegliato e lottato; con loro interminabili ore tutti scafandrati come astronauti.

E ogni nostro paziente, se lo dovessimo incontrare per caso fuori dall’ospedale… lo riconosceremo sempre e sempre ci ricorderemo di lui (anche se non si ricorderà mai di noi né ci riconoscerà).

Gli sorrideremmo… perché insieme abbiamo vinto questo malaccio.

 

 

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