Pet therapy: ecco come gli animali possono essere d’aiuto nella malattia

Ne abbiamo parlato con Francesca Mugnai, referente scientifico Antropozoa

Quali sono i benefici della pet therapy? In che cosa consiste e quando si applica? Abbiamo affrontato questo tema con Francesca Mugnai, psicologa clinica e filosofa, referente scientifica di Antropozoa.

Quando e come nasce Antropozoa?

«Nel 2002 da una doppia personale passione: per gli animali e per l’essere umano. La loro relazione, il loro “farsi bene” a vicenda mi hanno appassionato fin da piccola e dopo i miei studi in filosofia, poi approfonditi con la laurea in psicologia, ho trovato dei compagni di strada con i quali portare avanti queste tematiche. Fino, appunto, alla nascita di Antropozoa, una realtà che ormai da 21 anni opera negli interventi assistiti con gli animali (IAA), conosciuti popolarmente come pet therapy. Antropozoa collabora nel panorama regionale, e anche extraregionale, con strutture pubbliche e private, ospedali, entrando in tutti i reparti, case di riposo, centri di salute mentale, scuole e Università, con progetti e interventi che prevedono l’ausilio degli animali».

Quali competenze bisogna avere per entrare nel gruppo Antropozoa?

«La nostra realtà collabora attivamente con professionisti specializzati che abbiano conoscenza ed esperienza nel campo delle scienze psicologiche, educative, riabilitative e specialisti del mondo animale.
L’associazione è accreditata dall’Isaat, unico organismo italiano a ricevere tale riconoscimento per un modello formativo che si sforza di rendere più interdisciplinare, di qualità e professionale il mondo della formazione nella pet therapy».

Dal 2019 è nato anche il Centro Studi Antropozoa: di cosa si occupa?

«Segue nuove frontiere esplorative nell’ambito degli IAA, sia di ricerca che di divulgazione di un modello corretto e supervisionato di interventi in ambito clinico e di cura. Membri esterni e collaborazioni internazionali supervisionano l’aspetto scientifico e fanno da garanti per un confronto di qualità e super partes. Negli ultimi anni si sta concentrando sul punto di vista dell’animale, sul suo benessere fisico e mentale e sul fenomeno della zoonosi inversa, nonché sull’elaborazione del lutto del bambino e dell’adulto nella perdita del proprio animale domestico».


Quali benefici porta la pet therapy per i piccoli pazienti?

«I suoi effetti positivi a tutte le età e con varie problematiche vertono sull’area della socializzazione (depressione, autismo, disturbi generici dello sviluppo), cognitiva (disturbi psichiatrici e neurologici), emotiva (difficoltà di adattamento, disturbi dell’apprendimento) e neuromotoria.
Altro aspetto non da poco è quello della riabilitazione motoria con l’animale, in cui il cane o il cavallo fungono da importante motivatore al recupero psicofisico».

Come funziona?

«Ogni IAA è basato sul singolo paziente e sull’animale adatto a quel contesto e a quella persona. Non basta, insomma, avere un cagnolino bravissimo accanto per poter parlare di pet therapy: ci vuole formazione, occorrono animali che abbiano caratteristiche precise, cresciuti in questo ambito e un’equipe adatta allo scopo. Più l’obiettivo è terapeutico, più l’equipe si allarga a figure sanitarie e riabilitative e aumenta anche il monitoraggio sull’impatto sul paziente umano, mentre sull’animale rimane costante. Infatti, il benessere della persona deve corrispondere a un benessere per il cane/animale che collabora in IAA, per il quale l’impegno psicofisico è notevole».

Quali sono gli altri ambiti di applicazione?

«La pet therapy trova applicazione nell’ospedalizzazione in tutti i reparti, anche quelli più sensibili. Ma anche nella detenzione e nel relativo recupero, nella socializzazione di fronte a depressione, autismo, disturbi generici dello sviluppo, nell’area cognitiva per disturbi psichiatrici e neurologici, nell’area emotiva nella difficoltà di adattamento e nei disturbi dell’apprendimento, nell’area neuromotoria e nella riabilitazione motoria. Lavoriamo dunque in scuole, carceri, case famiglie, affidamento familiare e adozioni, Rsa, centri Alzheimer, strutture diurne o residenziali per disabili. Inoltre, proponiamo anche percorsi specifici e individuali nella fattoria socioeducativa di Antropozoa nel Valdarno aretino».

Qual è il ruolo infermieristico nella pet therapy?

«È un ruolo importantissimo, innanzitutto perché tiene la relazione col paziente, che ci indica l’obbiettivo e che continua a mantenere in itinere il senso del rapporto con la persona, e spesso tecnicamente costruiamo insieme l’intervento. L’infermiere, in particolare quello pediatrico, intercetta il bisogno del paziente/bambino e annuncia alla sua famiglia l’entrata del cane. Si trova, inoltre, quasi sempre nella stanza con noi, aiutandoci a costruire l’intervento e mantenendone il senso. È una figura fondamentale, dunque, nel setting relazionale».

Quali animali sono più indicati?

«I cani sono i più utilizzati. Alcune razze hanno una particolare predisposizione per la pet therapy. Ma soprattutto incide il carattere dell’animale nonché del soggetto con cui deve relazionarsi.
Sono coinvolti negli IAA anche il gatto, soprattutto con persone che soffrono di depressione e in generale nei disturbi psichiatrici, il coniglio che richiama l’affettività, il cavallo simbolo di forza ed energia, l’asino molto adatto con i bambini che soffrono di autismo.
Sono queste le specie domestiche riconosciute a livello italiano e internazionale dalle linee guida. Animal come glia alpaca non sono stati ancora ammessi a livello scientifico nei protocolli, ma attirano attenzione per le loro potenzialità relazionali. In altri Paesi è possibile anche operare con specie non domestiche, come delfini e rettili, ma va sempre garantita in primis la sicurezza dell’animale e del paziente e anche il corretto utilizzo di procedure igienico sanitarie».

Come si diventa operatore di pet therapy?

«Nella pet therapy non ci si può affidare all’approssimazione.
In Italia esiste una legge sugli interventi assistiti con gli animali, con linee guida stilate nel 2019 e la formazione accreditata dal Ministero della Salute che definisce i corsi accreditati. Il corso biennale organizzato da Antropozoa ha formato decine di operatori italiani e internazionali in mediazione con l’animale. Destinato a gruppi ristretti (massimo 15 persone) e a persone che abbiano già formazione, competenza ed esperienza in ambito sanitario, educativo e sociale, si sviluppa su lezioni teoriche, tirocini osservativi e pratici, simulazioni, supervisioni di gruppo e individuali sulla coppia cane-persona, elaborati e report nonché tesi annuali e weekend esperienziali. I docenti del calibro internazionale accompagnano i partecipanti in un percorso di 600 ore, attraverso un modello metodologico formativo multidisciplinare costruito e sperimentato sul campo, affiliato all’organizzazione Isaat e accreditato scientificamente dal Centro di Ricerca Antropozoa. All’interno del percorso, grande importanza viene dedicata anche all’educazione del cucciolo, seguito da esperti educatori cinofili di IAA e monitorato durante tutta la crescita e il percorso educativo da medici veterinari comportamentalisti fin dai 2 mesi di età».

E gli animali necessitano di una certificazione specifica?

«Gli animali vengono sottoposti a controlli costanti, periodici e specifici in base a protocolli molto severi, soprattutto quando operano in contesti sanitari come gli ospedali o le strutture assistenziali.
Grande attenzione poi viene riservata al loro stato di salute, non solo fisico, ma anche mentale: lavorare negli IAA è stressante, significa trovarsi in ambienti a volte ostili, con reazioni fisiche dell’umano improvvise e inattese, con odori e rumori difficili da gestire. Il benessere psico-fisico dell’animale, dunque, diventa una priorità così come quello della persona con cui va a lavorare».

Quali sono i progetti che avete svolto al Meyer?

«I progetti portati avanti in questi anni sono numerosi. Grazie alla Fondazione Meyer, da 22 anni lavoriamo in ogni reparto, anche i più delicati. Lavoriamo con pazienti individuati e segnalatici da medici e personale sanitario in interventi terapeutici. L’approccio è ludico, perché l’animale attiva emozioni, sorrisi, abbassa i livelli di cortisolo e lo stress, ma l’effetto è un’interazione terapeutica con i professionisti della cura in maniera costruita, personalizzata e che rimane nella cartella clinica e agli atti dell’ospedale. Lavoriamo al Meyer tutti i giorni tutto l’anno grazie a personale qualificato e un gruppo di cani estremamente formato a questo compito».

E gli altri in cantiere?

«Stiamo lavorando, in particolare, sugli adolescenti e sul trauma psichico. Dopo il Covid è estremamente presente, con un impatto che va oltre ciò che è visibile a tutti. Lavoriamo anche nel fare prevenzione negli ambiti educativi, scolastici e sanitari e per insegnare ai bambini a lavorare sulle loro emozioni».

Alessandra Ricco

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