Candidati alle regionali e sanità: il punto di Antonella Bundu

Corre per la carica di governatrice della Toscana con la lista di sinistra Toscana Rossa

In vista delle elezioni che si terranno il 12 e 13 ottobre prossimi, Infermierinews ha chiesto ai candidati alle regionali toscane di fare il punto sullo stato attuale del sistema sanitario in Toscana e sugli scenari futuri. Ecco il punto di Antonella Bundu, che corre per la carica di governatrice della Toscana con la lista di sinistra Toscana Rossa, sostenuta da Potere al Popolo, Rifondazione Comunista e Possibile e altre liste civiche toscane.

Bundu, 55 anni, è nata a Firenze nel 1969. Il padre si è trasferito in Italia dalla Sierra Leone negli anni Sessanta, dopo aver ottenuto una borsa di studio per studiare Architettura. Qui ha conosciuto la madre, che studiava Matematica. Nel corso della sua infanzia Bundu ha cambiato spesso Paese, alternando Sierra Leone e Italia. Nel 2019 si è candidata alla carica di sindaca di Firenze con una coalizione di liste civiche e partiti di sinistra, entrando in Consiglio comunale nel gruppo Sinistra Progetto Comune.

Come valuta la situazione della sanità italiana e toscana?

“La sanità pubblica è in grave sofferenza, in tutta Italia e anche in Toscana. Durante la pandemia si era detto che nulla sarebbe più stato come prima, che si sarebbe imparato qualcosa. E invece abbiamo visto continuare le logiche di privatizzazione, i tagli al personale, le esternalizzazioni dei servizi.

Una parte sempre più ampia della popolazione oggi non riesce ad accedere alle cure in tempi adeguati, e chi può permetterselo si rivolge al privato. Questo crea una sanità a due velocità, inaccettabile per una regione che vuole garantire uguaglianza.

Il problema secolare delle liste d’attesa per visite ed esami diagnostici ne è l’emblema: basterebbe, per esempio, ampliare gli orari di utilizzo delle apparecchiature pubbliche (TAC, risonanze, ecografie, ecc.) e farle funzionare anche la sera o di notte. Le macchine ci sono, il personale si può assumere. I fondi che spendiamo comunque per rimborsare le cliniche convenzionate andrebbero investiti nel pubblico, potenziando ciò che già abbiamo.

Inoltre, è stato drasticamente ridotto il finanziamento al sociale, con conseguenze dirette anche sull’emergenza sanitaria. Oggi i pronto soccorso vengono spesso usati come rifugio notturno per persone senza fissa dimora, ma non è questo il loro ruolo. Se le barelle restano occupate per ore da chi avrebbe bisogno di un’assistenza sociale che non c’è, e se personale altamente specializzato viene lasciato a gestire il disagio anziché le emergenze cliniche, il sistema si blocca.

Servono investimenti seri nel welfare: la civiltà di una nazione si misura da come tratta i suoi ultimi. Lasciare sole le persone fragili, e abbandonare chi lavora nei servizi pubblici, non è solo ingiusto: è anche miope.

Oltre agli aspetti già evidenziati, è fondamentale sottolineare la necessità crescente di infermieri e di un potenziamento dell’assistenza sanitaria e sociosanitaria a domicilio, oggi ancora largamente insufficiente. Questa carenza fa sì che la gestione della cronicità venga affrontata prevalentemente attraverso ricoveri in strutture residenziali o ospedaliere, con un impatto economico e organizzativo spesso rilevante sulle famiglie. Investire nell’assistenza domiciliare, invece, significherebbe non solo alleggerire il peso sui nuclei familiari, ma anche favorire una migliore qualità della vita dei pazienti e una più sostenibile gestione del sistema sanitario nel suo complesso”.

Quali sono secondo lei i punti di forza e i punti di debolezza?

“Eppure, ci sono ancora dei punti di forza importanti. Primo tra tutti: le persone che lavorano nella sanità. Penso soprattutto alle infermiere e agli infermieri, ma anche a OSS, tecnici, amministrativi. Senza di loro, il sistema non esisterebbe nemmeno.

Purtroppo, vengono troppo spesso ignorati, sottopagati, lasciati soli in condizioni di lavoro pesanti.

La forza della Toscana è stata, per anni, la rete territoriale, la prossimità, l’idea di una sanità capillare. Oggi però quei servizi territoriali sono stati svuotati, e invece di rinforzarli si è scelto di affidarli sempre di più a soggetti esterni. Questo è un errore che va corretto con urgenza. Serve programmazione, personale sufficiente e un’organizzazione che metta al centro il paziente”.

Le prime tre azioni che porterà avanti nello specifico in ambito sanitario.

“Nel concreto, in sanità bisogna agire su tre fronti:

− Piano straordinario per il reclutamento e la valorizzazione del personale sanitario, a partire da infermiere e infermieri.

− Rafforzare la medicina territoriale, soprattutto nelle zone marginalizzate e nei quartieri popolari.

− Applicare gli obiettivi del referendum regionale, riportando al centro la sanità pubblica e bloccando le esternalizzazioni”.

La giornalista Milena Gabanelli, in una recente intervista, ha detto che prima di votare i cittadini dovrebbero chiedere il nome del futuro assessore alla sanità: lei ha già una risposta? E quali saranno i requisiti in base ai quali farà la sua scelta?

“Più che il nome, abbiamo ben chiari i requisiti: oltre alla competenza sanitaria e all’esperienza nella gestione di sistemi complessi, pensiamo sia fondamentale saper dialogare con i professionisti del settore e con il territorio.

Serve una visione politica chiara: l’assessore o assessora alla sanità deve incarnare il carattere pubblico e universale del sistema sanitario, conoscere la realtà locale e saper ascoltare le professioni sanitarie.

Non serve un manager, serve qualcuno che metta le persone davanti ai numeri. Il diritto alla salute viene prima di tutto”.

Dopo la fase pandemica, in cui sono stati spesso indicati come eroi, gli infermieri sono tornati a lamentare condizioni di lavoro usuranti e scarso riconoscimento del proprio ruolo: come pensa che possa essere affrontato il problema?

“Basta ambiguità. Gli infermieri e le infermiere sono la colonna portante della sanità pubblica, ma troppo spesso vengono precarizzati, sottopagati e ignorati.

Serve un cambio radicale, e per questo siamo d’accordo con chi chiede:

− Assunzioni stabili, senza cooperative né agenzie interinali.

− Contratti dignitosi, con stipendi adeguati e orari sostenibili.

− Stop alle esternalizzazioni e reinternalizzazione dei servizi.

− Tutela della salute di chi cura, con misure reali contro il burnout.

− Democrazia nei luoghi di lavoro, perché chi lavora deve poter partecipare alle decisioni.

È fondamentale sottolineare che gli stipendi degli infermieri italiani non sono in linea con quelli degli altri paesi europei, e questa disuguaglianza incide pesantemente sull’attrattività della professione.

Le iscrizioni ai corsi di laurea in infermieristica sono in calo, perché oggi la professione non è più vista come un percorso stimolante né economicamente sostenibile.

Inoltre, la professione infermieristica – per sua natura – non può essere affidata agli interinali, che non partecipano alla formazione continua. Questo ha ricadute dirette sulla qualità dell’assistenza e sulla sicurezza dei pazienti. Serve una scelta politica netta: assumere, formare e valorizzare stabilmente chi cura”.

La Toscana è stata più volte all’avanguardia sul fronte infermieristico: pensa che possa trovare una soluzione innovativa all’attuale crisi dell’infermieristica? E se sì, quale?

“Sì, la Toscana può ancora fare scuola, ma serve il coraggio di cambiare.

L’innovazione vera oltre a essere digitale o tecnologica, deve essere sociale e culturale.

Significa costruire una sanità più orizzontale, dove le competenze degli infermieri vengano riconosciute, valorizzate e retribuite adeguatamente.

Penso a percorsi di specializzazione, a ruoli più autonomi, a un’organizzazione che superi le vecchie gerarchie e promuova il lavoro di squadra. Se vogliamo davvero risolvere la crisi dell’infermieristica, dobbiamo smettere di considerare chi cura come un “costo” e iniziare a trattarlo per ciò che è: una risorsa pubblica fondamentale”.

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