Mancano infermieri. Si chiedono volontari: il paradosso della cura

Di Alessandro Pini

È sotto gli occhi di tutti, mancano professionisti e soprattutto mancano le professioni sanitarie: non ci sono abbastanza medici, non ci sono abbastanza infermieri. Non quanti ne servirebbero. Le cause sono note: condizioni di lavoro sempre più pesanti, riconoscimento economico inadeguato, percorsi di studio lunghi, costosi, faticosi. Ma la radice più profonda è forse culturale se la società si è trasformata e i suoi valori con essa. Oggi l’obiettivo dominante è la realizzazione individuale, spesso a scapito della dimensione del servizio e dell’aiuto.

Eppure, mentre denunciamo che mancano gli infermieri, lamentiamo anche la carenza di volontari nel soccorso e nel servizio sociale. Come se non fosse lo stesso problema che si ripete su piani diversi. Come se fosse possibile immaginare un mondo dove si moltiplicano i bisogni di salute, ma non cambiano le forme dell’impegno per rispondervi.

“È come se si fosse rotto un patto generazionale che univa la formazione, la professione e la solidarietà in un continuum di significato”

I giovani rinunciano alla professione retribuita, seppur in modo non sempre adeguato, professione che garantisce oggi lavoro immediato: subito all’opera dopo la laurea perché gli infermieri servono, non solo in ospedale, gli infermieri sono professionisti capaci di esprimere risposte al bisogno di salute in modo puntuale e competente. Rinunciano anche al volontariato, spesso vissuto come un retaggio di altri tempi. È come se si fosse rotto un patto generazionale che univa la formazione, la professione e la solidarietà in un continuum di significato, ma il volontariato non può essere pensato come cent’anni fa, quando la comunità suppliva alla mancanza dello Stato.

Oggi dovrebbe essere una forza integrativa, non sostitutiva, capace di adattarsi alle nuove forme di partecipazione e ai nuovi linguaggi della solidarietà. Allo stesso modo, la professione infermieristica deve ritrovare credibilità e attrattiva, non solo in termini economici ma anche valoriali e sociali, restituendo al “prendersi cura” il prestigio che merita.

“La verità è che non basta chiedere più volontari. Né limitarsi a contare quanti infermieri mancano (oggi 65.000 secondo le stime ufficiali)”

Chi scrive è stato soccorritore volontario di associazione prima e infermiere poi, in un territorio in cui il volontariato è stato letteralmente inventato con “brevetto” storico indiscusso della mutualità di chi dal Medioevo si è donato prima di donare. In Toscana il volontariato è fortissimo della sua radice più pura, ma sempre più debole in termini di resistenza alle difficoltà delle trasformazioni che le istituzioni più antiche possono faticare a sostenere: quelle sociali. La situazione non è diversa nelle altre regioni d’Italia e sono pochi i modelli che hanno compreso la necessità di alternative capaci di recuperare i frammenti di un servizio assistenziale nelle sue molteplici forme, per rimetterli insieme in un quadro completamente rinnovato e anticipare i mutamenti tanto dei bisogni del cittadino quanto dei mezzi a disposizione per garantirne risposta.

La verità è che non basta chiedere più volontari. Né limitarsi a contare quanti infermieri mancano (oggi 65.000 secondo le stime ufficiali). Bisogna ripensare l’intero modello di cura, nei suoi equilibri fra professione, comunità e istituzione. Solo così potremo affrontare il futuro di una società che invecchia rapidamente e che chiede, più che mai, di essere accompagnata a benessere.

Perché mancano gli infermieri e si chiedono volontari? Forse, quello che manca davvero è una cultura condivisa della cura.

Oggi viviamo l’equivoco del volontariato professionale

Se dunque la società fatica a riconoscere il valore del “prendersi cura” come professione, non stupisce che si continui a confondere il confine tra ciò che è volontariato e ciò che è lavoro. È una confusione culturale prima ancora che organizzativa: si pensa che basti l’impegno morale per supplire alla carenza strutturale, che la dedizione possa sostituire la competenza, che la buona volontà sia una quota del professionismo.

Ma questo equivoco, oggi, è diventato insostenibile. Non è ragionevole che un infermiere, dopo aver scelto una professione complessa, faticosa e di grande responsabilità, continui a esercitarla anche come volontario, magari come soccorritore. Non lo è se si considera il valore reale del lavoro professionale, la formazione richiesta, i rischi a cui si espone ogni giorno e la necessità di tutelare la propria integrità fisica e psicologica. Anzi, è sensato – e direi persino necessario – che chi è professionista abbandoni l’idea di sé come volontario in quell’ambito e rimanga saldo nella propria identità professionale.

Non si tratta di egoismo o di perdita di spirito solidale: si tratta di coerenza culturale e civile. Non è una posizione personale, ma un dato oggettivo: non esiste, nel Codice Deontologico dell’infermiere, alcun riferimento a un obbligo morale di “donarsi” oltre la sfera professionale; non lo si trova nell’ordinamento giuridico, né nelle definizioni della professione e non può, in alcun modo, essere utilizzato come strumento di compensazione alle carenze strutturali di un sistema sanitario che fatica a reggere.

“Perché continuare a pensare che la cura, la salute, l’assistenza debbano restare gli unici ambiti in cui il “dono” possa sostituirsi alla giusta retribuzione, alla tutela del ruolo, alla dignità della professione?”

Perché se accettassimo questo principio – che il professionista debba supplire volontariamente ai vuoti del sistema – allora dovremmo immaginare architetti volontari che progettano case gratuitamente, ingegneri volontari che costruiscono ponti senza compenso, insegnanti volontari che fanno scuola senza contratto. Nessuno lo ha mai persino immaginato. E allora perché continuare a pensare che la cura, la salute, l’assistenza debbano restare gli unici ambiti in cui il “dono” possa sostituirsi alla giusta retribuzione, alla tutela del ruolo, alla dignità della professione?

Forse è proprio da qui che deve ripartire la nostra riflessione collettiva: dal riconoscere che la solidarietà non si misura nella gratuità del gesto, ma nella qualità del servizio reso, nel valore umano e tecnico che solo un professionista può garantire. Probabilmente così, restituendo piena dignità al lavoro della cura, potremo sperare di ricostruire una società che non viva più di supplenze e di eroismi, ma di equilibrio, rispetto e consapevolezza del valore del prendersi cura.

Riprogrammare la solidarietà

Se il sistema sanitario e il mondo del volontariato continuano a basarsi su modelli nati in un’altra epoca, non possono più rispondere ai bisogni di oggi. Riprogrammare significa avere il coraggio di mettere in discussione un modello che, pur nobile e storicamente fondante, ha smesso di funzionare come si era prefisso. Per secoli la solidarietà ha vissuto di un’idea quasi sacrale del dono: chi aiuta deve dare sé stesso, il proprio tempo, le proprie energie, persino la propria sicurezza. Ma oggi questo modello entra in crisi.

Chi dice che il volontario debba necessariamente sacrificarsi?
Chi stabilisce che la generosità debba coincidere con la rinuncia personale?

La società contemporanea è cambiata. I giovani non cercano più solo un posto dove “servire”, ma un luogo dove potersi riconoscere, dove ciò che fanno abbia senso anche per loro stessi, dove il dare e il ricevere non siano in contraddizione. Come possiamo pretendere che un giovane scelga di donarsi gratuitamente se, nello stesso tempo, quel giovane rifiuta di impegnarsi in una professione che ha come nucleo la stessa logica del prendersi cura? Il problema è comune: la fatica di riconoscere valore al gesto della cura, sia esso retribuito o volontario.

E allora, forse, anche la soluzione deve essere comune

Occorre ripensare il senso del dono e del servizio, non come atto di sacrificio ma come forma evoluta di partecipazione sociale, capace di generare benessere reciproco.
Non si tratta di rinnegare il volontariato, ma di aggiornarlo, di renderlo compatibile con la vita, i tempi e le aspirazioni di oggi. E’ necessario immaginare nuove forme di corresponsabilità, in cui la cura torni a essere un valore condiviso, un punto d’incontro tra generazioni, tra cittadini e istituzioni, tra chi sceglie di farne una professione e chi decide di viverla come parte della propria identità.

Il problema sembra comune.

Potrebbe esserlo anche la soluzione.

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