Cristiana Rago, infermiera con dottorato in Scienze Infermieristiche e Sanità Pubblica, a lavoro al Nuovo Ospedale di Prato, spiega cosa voglia dire operare nella ricerca infermieristica
Quella di infermiere è una professione con molteplici sfaccettature. Tra le varie declinazioni della professione c’è anche la ricerca infermieristica, un ambito che in Italia non è ancora sbocciato a pieno. Di cosa significa lavorare in quest’area e di quale sia la strada che un’infermiera o un infermiere devono percorrere per diventare ricercatrice o ricercatore abbiamo parlato con Cristiana Rago, infermiera che ha conseguito il dottorato in Scienze Infermieristiche e Sanità Pubblica e lavora al Nuovo Ospedale di Prato “Santo Stefano” (Neurologia/Neurocritical Care). Rago è anche consigliere dell’Ordine delle Professioni Infermieristiche Firenze-Pistoia e referente nazionale dell’Associazione nazionale infermieri neuroscienze, Area neurologica adulti.
Cosa significa fare ricerca infermieristica?
Svolgere ricerca in ambito infermieristico rappresenta un impegno intellettuale e pratico volto a raffinare e ampliare i fondamenti della nostra disciplina. Non si tratta solo di acquisire conoscenza, ma di contribuire in modo sostanziale alla creazione di nuovi paradigmi che influenzano l’assistenza e il benessere delle persone.
La ricerca infermieristica non è un mero esercizio accademico, ma un motore di innovazione che genera dati e conoscenze fondamentali per migliorare la qualità dell’assistenza quotidiana. In un contesto in cui l’infermieristica assume sempre più un ruolo cardine nelle politiche sanitarie, la ricerca rappresenta una dimensione strategica: grazie ad essa possiamo affinare la nostra comprensione delle esigenze umane nel contesto di cura e accrescere il nostro ruolo nel panorama sanitario.
La ricerca infermieristica è ancora un ambito di nicchia della professione?
In effetti, la ricerca infermieristica, soprattutto in Italia, si colloca ancora ai margini rispetto alla prassi clinica consolidata. Se nei paesi anglosassoni l’infermieristica si è ormai affermata come disciplina accademica e di ricerca, qui il percorso è ancora in evoluzione.
Siamo alle prese con un paradosso: da un lato, vi è una crescente attenzione verso l’Evidence-Based Practice, che richiede un ampliamento continuo del corpus di conoscenze, dall’altro, persistono resistenze culturali e strutturali che ne rallentano la diffusione. Tuttavia, credo che questo scenario stia gradualmente mutando, con un numero sempre maggiore di infermieri che si avvicinano alla ricerca, consapevoli del potenziale che essa ha non solo per rafforzare la nostra identità professionale, ma anche per ridisegnare la qualità della cura.
Quale percorso deve fare un’Infermiera per diventare ricercatrice?
Diventare ricercatrice in ambito infermieristico implica un percorso di formazione rigoroso e continuo, che inizia con il conseguimento della Laurea Magistrale e culmina con il Dottorato di Ricerca. Questo passaggio è fondamentale per acquisire competenze avanzate nelle metodologie scientifiche e per sviluppare una capacità analitica in grado di affrontare le sfide complesse proprie del contesto sanitario.
Il Dottorato, infatti, non si limita a trasmettere conoscenze teoriche, ma offre l’opportunità di sviluppare un pensiero critico, essenziale per il progresso della ricerca. Tuttavia, la formazione non può essere separata dall’esperienza pratica: un ricercatore infermieristico deve possedere una sensibilità che si affina sul campo, lavorando direttamente con i pazienti, in modo da coniugare il rigore scientifico con una profonda comprensione della condizione umana. Lavorare in contesti interdisciplinari consente, infine, di arricchire la propria visione e di contribuire a soluzioni innovative che rispondano in modo efficace alle sfide emergenti della pratica clinica.
Quali sono gli ultimi temi su cui hai lavorato?
Le mie recenti ricerche si sono incentrate principalmente nel campo delle neuroscienze, con un focus specifico sugli esiti a lungo termine nei pazienti sopravvissuti a eventi cerebrovascolari. In particolare, ho analizzato l’impatto di interventi educativi e programmi di supporto durante la fase di transitional care, con l’obiettivo di migliorare la qualità dell’assistenza e facilitare l’adattamento psico-sociale di pazienti e caregiver.
Questa fase di transizione rappresenta un momento di significativa vulnerabilità per i pazienti; di conseguenza, l’assistenza non può limitarsi agli aspetti fisici, ma deve includere una considerazione approfondita del benessere psicologico e sociale. Inoltre, mi sono dedicata all’applicazione di metodologie innovative di analisi dei dati, come l’Automated Text Data Analysis (AATD), la cui adozione si è rivelata cruciale per una comprensione più profonda delle parole, consentendo l’analisi dei significati e delle connessioni implicate nei processi assistenziali.
Parallelamente, ho avviato progetti finalizzati a esplorare e implementare approcci metodologici all’avanguardia per rispondere in modo efficace alle sfide emergenti nel settore dell’assistenza sanitaria.