Codice Rosa, un percorso trasversale per tutte le vittime di violenza

Intervista a Marco Carnevali, referente infermieristico del nucleo operativo Codice Rosa dell’ospedale di Careggi

«L’elemento fondamentale è saper attendere: le persone devono maturare la propria decisione e a volte il silenzio è più importante di tante parole. Quella di cambiare vita non è una scelta facile, un’operazione di routine: il messaggio che deve passare innanzitutto è che noi ci siamo e che siamo pronti ad accogliere e ad ascoltare 24 ore su 24. E spesso succede che le persone tornano e per avviare questo difficile percorso cercano proprio l’infermiere che si è preso cura di loro in pronto soccorso». A parlare è Marco Carnevali, referente infermieristico del nucleo operativo Codice Rosa dell’ospedale di Careggi, a Firenze. Con lui abbiamo affrontato il tema dell’evoluzione del Codice Rosa nel corso degli anni che, a differenza di quanto spesso si pensa, non riguarda solo le donne ma prende in carico tutte le vittime di violenza di genere e di crimini d’odio.

 

Ci può spiegare qual è l’obiettivo del Codice Rosa?

«Ricordo sempre, e non mi stancherò mai di ripeterlo, che il fenomeno della violenza è trasversale: è errato pensare che può interessare solo alcuni. Potrebbe colpire chiunque di noi, dei nostri familiari o dei nostri amici e conoscenti. Il Percorso Codice Rosa, che nasce a Grosseto su un progetto pilota proposto dalla dottoressa Doretti – e successivamente esteso a tutte le strutture sanitarie della Toscana e formalizzato con Delibera della Giunta della Regione nel 2016 come rete tempo dipendente al pari dell’ictus e dell’infarto – ancora oggi viene molto spesso identificato come un percorso dedicato alle donne. Forse per il termine “rosa” che viene erroneamente inteso come aggettivo, come “colore rosa”, ma che in realtà fa riferimento al fiore. In origine il percorso si chiamava infatti Codice Rosa Bianca, poi abbreviato in Codice Rosa. Forse il termine in inglese ci toglie da interpretazioni dubbie: The Rose Code. In realtà il percorso prende in carico tutte le vittime di violenza di genere e di crimini di odio, a prescindere dal genere di appartenenza».

 

Com’è cambiato il Codice Rosa negli anni?

«Oggi vediamo arrivare in Pronto Soccorso sempre più persone che non sono donne: persone in transizione, disabili, anziani che sono i casi più difficili da scoprire perché spesso l’aggressore è proprio il caregiver che lo accompagna. Bisogna avere sempre le antenne dritte, riconoscere i segnali: per questo noi sanitari abbiamo bisogno di una parte formativa, soprattutto per tutta la parte relativa ai crimini d’odio, dove ci sono tanti indicatori che vanno riconosciuti. Però se guardo indietro e penso a dieci anni fa devo dire che siamo migliorati davvero tanto: il caso di violenza non lo sentivamo “nostro” o meglio ci sentivamo più preparati ad accogliere le situazioni che sono nel nostro Dna come l’ictus o l’infarto, l’emergenza. Con il tempo abbiamo capito come approcciarci a questo ambito che è sicuramente un’emergenza ma con sfaccettature diverse, ma dobbiamo ancora lavorarci attraverso la formazione, l’informazione, gli incontri».

 

Cosa s’intende per crimine d’odio?

«Il crimine di odio, chiamato anche crimine di identità motivato dall’odio, ha la peculiarità di essere un “doppio crimine” poiché unisce il reato base e il reato motivato dal pregiudizio: l’unione dei due reati genera l’hate crime. È un tipo di violenza perpetrata nei confronti di persone discriminate per l’appartenenza, reale o presunta, ad un gruppo: etnia, religione, tratti somatici, sesso, disabilità, orientamento sessuale, identità di genere. Il crimine di odio è caratterizzato dall’under-reporting che è il fenomeno per il quale le vittime e i testimoni di crimine d’odio tendono, per motivazioni disparate (soprattutto di carattere psicologico) a non denunciare, e l’under-recording, vale a dire il mancato riconoscimento da parte del personale sanitario (per mancanza di formazione o informazione sul fenomeno) e delle Forze dell’Ordine di questi crimini, con conseguente mantenimento del fenomeno sommerso che resta sottostimato e ancor peggio non indagato, originando il fenomeno di “normalizzazione dell’odio”. Le motivazioni sono tante. Nella violenza di genere, per esempio, il timore di mettere a conoscenza i familiari o i conoscenti dell’aggressione, del senso di appartenenza al gruppo verso il quale l’aggressore ha indirizzato la propria violenza, o il rifiuto a prendere coscienza di un proprio sentirsi “differente” da quanto ci si aspetta o da quanto si aspettano i familiari e gli amici, la vergogna, la mancanza di fiducia nelle Forze dell’Ordine e nel sistema sanitario, la paura di compromettere la propria privacy, la paura di ritorsioni».

 

C’è poi il tema della violenza su portatori di disabilità e anziani…

«Altrettanto diffuso ed altrettanto sommerso, se non anche maggiormente, è il maltrattamento sugli anziani e sui portatori di disabilità che troppo spesso non denunciano, soprattutto se l’autore del maltrattamento è un parente, un figlio, un collaboratore familiare e tale silenzio ha come causa la stretta dipendenza affettiva, fisica, economica, assistenziale. Su queste persone è inoltre estremamente difficile cogliere i segni di maltrattamento o violenza se non esplicitamente denunciati. Basti pensare alle terapie assunte dalle persone anziane che spesso comportano facilità di ecchimosi anche per lievi traumi: l’osservazione di un livido è difficilmente riconducibile alla reale dinamica dei fatti esposti. Nella violenza su donne portatrici di disabilità la discriminazione è multipla, generata dall’intersezione tra fattore genere e condizione di disabilità. I dati relativi a questa tipologia di reato sono davvero inquietanti: secondo quanto riportato da Associazione Differenza Donna in 6 anni 146 donne portatrici di disabilità sono state vittime di violenza. Purtroppo negli anni si è assistito ad una “escalation”, vale a dire una sorta di accettazione sociale di alcune forme di discriminazione con la conseguente graduale riduzione, fino all’annullamento, del contrasto a tali manifestazioni di odio. In questo tipo di violenza il Pronto Soccorso può e deve svolgere un ruolo strategico, rappresentando spesso l’unica struttura capace di intercettare tali reati non altrimenti presi individuati e presi in carico».

 

Cosa può e deve fare un infermiere quando si trova davanti a un caso di violenza sospetto (o conclamato)?

«Il personale infermieristico, anche per quanto previsto dalla normativa nazionale, deve avere nel proprio bagaglio formativo e professionale gli strumenti necessari alla corretta presa in carico delle donne che si rivolgono alle strutture sanitarie. Nozioni non solo sanitarie ma anche e soprattutto relazionali, psicologiche e medico-legali e, proprio sui dati stimati di “violenza silenziosa”, capacità di intercettare (dalla verifica di precedenti accessi, dai segni, eventi, congruenze nel raccontato e comunicazione non verbale) le possibili vittime che non dichiarano, all’arrivo in Pronto Soccorso, di essere state oggetto di maltrattamento e/o violenza. L’infermiere di triage, per lo specifico setting del PS, ma in generale la figura dell’infermiere in qualsiasi altro setting, deve saper “guardare” anche ciò che non è così palesemente visibile, deve andare oltre, e cogliere tutte quelle sfumature, atteggiamenti, comportamenti, sguardi, spazi, silenzi, stati di eccitazione, le posture, il non detto, la mimica, di quella persona di qualsiasi genere possa essere che ci chiede aiuto».

 

Ma, come si diceva, sempre con la massima discrezione…

«La vittima va saputa riconoscere dall’infermiere che deve sapersi relazionare in maniera rispettosa al momento dell’accoglienza. Considerare che ogni singola domanda tocca la sfera personale, evitare la ripetizione di domande delicate che comportino la ripetizione di racconti dolorosi, di procedure non necessarie, di commenti (vittimizzazione secondaria). Dobbiamo pensare che le strutture sanitarie prevedono lo svolgimento di alcune attività, quale appunto il triage al PS, in una tempistica molto esigua e ridotta ed è necessario prendere decisioni in pochi minuti di colloquio. Ma quei pochi minuti sono fondamentali, critici, perché se non utilizzati correttamente possono scoraggiare la persona ad affidarsi, possono consentire che l’autore del maltrattamento resti al fianco della persona maltrattata. Minuti preziosissimi che richiedono sensibilità, esperienza e formazione e che se ben utilizzati consentono la messa in sicurezza entro massimo 20 minuti della vittima, in locali dedicati».

 

Veniamo ai dati: quanto è diffuso, a oggi, il fenomeno della violenza sulle donne?

«Attualmente i dati su maltrattamento e violenza sulle donne sono raccolti sulla base degli accessi alle strutture sanitarie, ai centri antiviolenza e delle denunce alle Forze dell’Ordine. Nel 2020 sono stati 116 i femminicidi a livello nazionale, e le denunce per maltrattamento, percosse, violenze sessuali e atti persecutori sono state 56524 delle quali circa il 90% di sesso femminile; i contatti presso i centri antiviolenza sono stati oltre 15 mila. In AOU Careggi gli accessi per maltrattamento o violenza sessuale sono stati 121, con un rapporto tra sesso maschile e sesso femminile in linea con i dati nazionali (circa il 90% delle vittime è di sesso femminile).  È però da sottolineare che quanto registrato è soltanto la punta di un iceberg poiché si stima che oltre l’80% delle violenze restino silenti, nascoste, non denunciate».

 

Secondo la sua esperienza quanto è difficile raccontare? Si denuncia di più rispetto al passato?

«Le denunce sono sicuramente aumentate negli ultimi anni, passando da poco più di 45 mila nel 2015 a oltre 56 mila nel 2020. Posso affermare che nel tempo come percorso e come Rete Codice Rosa ci siamo posti obiettivi di formazione e revisione dei processi con un netto miglioramento delle attività di presa in carico delle donne oggetto di maltrattamento o violenza, sia che risultino fortemente motivate a procedere con la denuncia e l’accettazione dei percorsi di messa in sicurezza sia che abbiano timore e provino un forte senso conflittuale nei confronti del proprio vissuto. Le persone che arrivano e vengono messe in stanza Codice Rosa spesso hanno bisogno di tempo, riflessione, silenzio, accoglienza, protezione raccoglimento per decidere in completa autonomia e consapevolezza che fare del proprio futuro. Il personale sanitario non può e non deve decidere né indurre né forzare la persona nella decisione, deve invece trasmettere la capacità di ascoltare ed accogliere. Questo può voler dire saper accettare che la vittima si rifiuti di denunciare o di intraprendere un percorso di cambiamento della propria situazione comunicando in modo verbale e non verbale la propria disponibilità ad ascoltare ed accogliere anche in un momento successivo la dove la persona senta di essere pronta a raccontarsi, ad aprirsi e a dire basta».

 

Dove e come pensa che sarebbe utile intervenire per migliorare ancora le prestazioni del percorso Codice Rosa?

«Il percorso di Codice Rose è un percorso complesso, nel quale ognuno fa la propria parte ma spesso senza conoscere bene i passaggi precedenti e successivi. Abbiamo da poco terminato un periodo di formazione che ci ha permesso di conoscere tutti gli attori che intervengono dopo la dimissione dall’ospedale: è stato illuminante. Entrare in contatto con tutta la rete territoriale del sociale, contestualizzare e vedere il lavoro successivo al nostro è stato fondamentale e gratificante anche perché il “dopo” si basa molto sulle prove che raccogliamo in pronto soccorso e che quindi richiede tempo e massima attenzione. Un grande ostacolo al nostro lavoro è poi il grande ricambio di infermieri nel Pronto Soccorso: se dopo aver formato un infermiere questo va via si riparte da zero. Quello della formazione in tema di assistenza alle vittime di violenza è un lavoro che va fatto di continuo, cadenzato perché ad oggi non fa parte di formazione di base. Ma ci stiamo lavorando: c’è l’idea di introdurre un corso obbligatorio per i neo assunti che dia a tutti un’infarinatura di base».

 

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