L’infermiera Caponi: «Lavorare in Rsa non è di serie B. Qui solo personale molto qualificato»

Una professione scelta un po’ per caso e pian piano amata grazie agli incontri giusti e al desiderio di lasciare un’impronta in un’attività ricca di insidie. Isabella Caponi, 59 anni, infermiera coordinatrice nella Rsa di Montaione, in provincia di Firenze, dopo aver lavorato anche in ospedale. L’abbiamo intervistata in occasione della Giornata Internazionale dell’Infermiere in programma il 12 maggio.

Quando ha deciso che sarebbe diventata infermiera?

«In realtà non era nelle mie previsioni. E’ stata un’amica delle scuole superiori che voleva diventare infermiere a ‘contagiarmi’. E così dopo aver frequentato per un anno l’Università di Lingue a Pisa, ho frequentato a Empoli il Corso di Laurea triennale infermieristica dove ho avuto la fortuna di incontrare persone stupende come Massai. Lui ha fatto la differenza per la mia carriera, mi ha dato tanto e i suoi insegnamenti li porto sempre con me».

Nel suo passaggio da ospedale a Rsa ha notato delle differenze nello svolgimento della professione?

«Assolutamente sì. In ospedale non mi sentivo a mio agio. Dopo aver fatto il tirocinio a Empoli mi ritrovai in una realtà gretta e piccola dove al primo posto c’erano i medici, non i pazienti. La figura dell’infermiere in Rsa era principalmente di supporto, poi, però, proprio da queste realtà è partito il cambiamento evolutivo. Perché qui era il bisogno stesso che ti costringeva a cercare e dare risposte visto che il medico non è sempre presente. Devi prenderti le tue responsabilità, seppur restando sempre nei limiti della professione».

Cosa significa oggi essere infermier in una Rsa?

«E’ una realtà che necessita di un infermiere “manager”, un intellettuale che sappia prendersi cura a 360 gradi di un anziano. Invece spesso essere infermiere di una Rsa è visto come un lavoro di serie B. La realtà è che servono infermieri molto qualificati».

Quale è la sua giornata tipo?

«Generalmente al mia giornata tipo dura 10 ore: inizio leggendo le varie consegne per avere un quadro generale della situazione, poi rispondo alle telefonate e inizio le numerose riunioni con gli operatori di programmazione, partecipo ai colloqui con i familiari dei nostri nuovi ospiti, poi mi confronto con i servizi sociali».

Cosa direbbe ad un giovane che si affaccia oggi alla professione?

«Direi che è una delle professioni più belle che esiste. Tornassi indietro la risceglierei mille volte. Ma nessuno si aspetti stipendi da capogiro, questa è l’unica carenza. Nella vita però i soldi non sono tutto. Sono contenta del lavoro che ho fatto e che sto facendo perché aiuto tante persone. E in più questa professione permette di fare tanta innovazione, ricerca scientifica e assaporare e confrontarsi con tante vite grazie al confronto con i familiari dei nostri ospiti che ti raccontano le loro storie. Un universo che non ti permette di restare chiuso nel tuo piccolo»

 

 

 

 

 

 

 

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