Dalla corona d’alloro al camice e ai dispositivi anti contagio

Il Covid visto con gli occhi di una giovane infermiera neolaureata

Laurearsi in infermieristica nel pieno della pandemia e cominciare subito a lavorare. È questa la storia di Myriam Letizia Li Vigni, una giovane infermiera che spiega le difficoltà degli ultimi mesi da studentessa e del suo primo periodo nel reparto Covid dell’ospedale di Careggi a Firenze.

Il 2020 cosa ha tolto e cosa ha dato alla formazione?

«A livello di formazione e nozionistico, personalmente dico che il 2020 ha tolto tanto e dato poco. Ho dovuto studiare da sola, laureandomi con 110 e lode, in sessione anticipata a Firenze. Le lezioni erano registrate, per cui le domande venivano fatte via email e le risposte dei professori potevano arrivare in certi casi in ritardo. Le nostre tutor universitarie invece sono sempre state presenti e disponibili per confronti diretti tramite piattaforme come Google Meet o anche solo per sostegno morale. È stato comodo a livello organizzativo, anche per chi lavorava. A livello umano questa fase mi ha comunque dato tanto, sicuramente una spinta all’autonomia e alla collaborazione, la condivisione di idee tra pari. In ogni caso, in generale chi voleva studiare ha studiato, anche con questa modalità».

Il tirocinio come si è svolto?

«Nell’ultimo anno i tirocini sono stati variegati. Da novembre a marzo sono stati regolari. Io ho fatto tirocinio in presenza in neurorianimazione, nella terapia intensiva del Cto e poi nel contesto della medicina di famiglia e comunità, un nuovo fronte dell’infermieristica dove c’è maggiore autonomia e allo stesso tempo è possibile un lavoro in team con le altre figure professionali ben organizzato e ramificato. È invece saltata l’esperienza di marzo e aprile: sarei dovuta andare al Meyer nel dipartimento di neuroscienze. Invece abbiamo fatto molte attività formative professionalizzanti in Fad, tramite dei meet prefissati. Affrontavamo casi clinici con format istituzionali dati dalle tutor che entravano nei meet per vedere se effettivamente li stessimo facendo e ci guidavano quando c’era bisogno. È stato un tirocinio diverso ma comunque molto interessante. Le tutor inoltre hanno offerto a chi si candidava di fare tutoraggio e formazione agli studenti del primo anno».

Com’è stata questa esperienza?

«Molto carina. I tirocini del primo e del secondo anno servono per imparare, per fare esperienza e capire l’essenza della professione. Gli studenti del primo anno con questi tirocini sono stati i più penalizzati. Noi abbiamo dato loro un appoggio e con alcuni siamo ancora in contatto. Facendo queste otto ore di formazione ai ragazzi dei primi due anni, c’è stato riconosciuto un “punto bonus” togliendo ore dal monte ore del nostro tirocinio. In pratica è stato un modo alternativo per completare il periodo del nostro progetto formativo. È stato creato un gruppo di lavoro per fare tirocinio di gruppo online e si è imparato molto di più, insieme. Anche e soprattutto col confronto».

La tesi come si è sviluppata? Il Covid ha influenzato la scelta tema?

«Sì e no. Io ho iniziato uno studio di ricerca quando ero al secondo anno, quindi quando è scoppiato il Covid era già in corso da un anno. Il Coronavirus ha posticipato la fine della ricerca e ho quindi fatto la parte sperimentale a settembre invece che a marzo, ma nonostante ciò sono riusciti a portarla a termine in tempo per la sessione di laurea. Lo studio finalizzato alla stesura della tesi è stato implementato con l’esperienza in una centrale operativa del 118 e di questo il Covid è stato parte integrante in quanto ha influenzato inevitabilmente gli infermieri coinvolti nello studio. Ha visto coinvolti in primis la mia relatrice Diletta Calamassi e Giampaolo Pomponi e ha voluto esplorare gli effetti delle frequenze a 432 Hz rispetto ai 440 Hz sui parametri vitali e sullo stato d’ansia degli operatori sanitari della CO in un momento così delicato. Nella tesi non si parla esplicitamente di Covid, ma è stato parte integrante nel tirocinio di agosto fatto in presenza».

L’esame di stato come lo ha vissuto?

«Lo abbiamo svolto in balia dell’incertezza, senza sapere le modalità fino a 4/5 giorni prima. Non sapevamo se lo avremmo affrontati in presenza o meno. È stato diverso dal solito, seguendo le logiche di un concorso pubblico: lo abbiamo svolto in presenza ma con modalità online. Si sarebbe dovuto articolare in prova teorica e pratica, invece ha seguito le logiche di un concorso pubblico con la discussione di un caso clinico sulla base della domanda estratta tra le varie fasi del processo di nursing. Personalmente il giorno dell’esame da abilitante l’ho vissuto come se fosse una discussione circa il caso scelto, come se fossi in reparto davanti al paziente, ponendomi e articolando un discorso fondato sulle evidenze scientifiche che ho studiato fino a quel momento e su quello che ho “rubato” con gli occhi e le orecchie nel corso dei tre anni dai senior che mi hanno motivata a interrogarmi sul perché di ogni cosa, senza accontentarmi mai».

Com’è essere neo laureati in tempo di Covid?

«La situazione è tesa ma mi sono buttata. Ho avuto la possibilità di laurearmi e di formarmi. Volevo dare una mano. Il giorno dopo la laurea sono andata a fare un colloquio e da lì sono entrata a Careggi nel Covid center. Nel mio primo giorno di lavoro mi sono trovata ad aprire il reparto insieme ai colleghi e ogni giorno vedevo che questo cresceva con me. Per cui se in un primo momento ero spaventata, col passare dei giorni non mi sembrava poi così estraneo e distante da me, era sempre più in divenire e prendeva una forma familiare e sicura grazie alle corrette procedure di protezione. Sono ancora a Careggi, ho cambiato piano dopo una settimana e ho di fatto ricominciato di nuovo da zero ma comunque mi sto trovando molto bene dato che siamo una squadra forte, dove il senior con esperienza pluridecennale incontra il neolaureato fresco di teoria e pieno di entusiasmo e voglia di fare. Ognuno fa la sua parte e ci veniamo in contro in base alle esigenze e agli sbalzi d’umore di ognuno. Ci sosteniamo a vicenda come se ci conoscessimo da sempre e fossimo una grande famiglia… che di fatto stiamo diventando».

Le istituzioni vi sono state vicino?

«I referenti dell’Ordine ci seguono fin dal corso di laurea, ci hanno sempre sostenuto e ascoltato anche se eravamo solo studenti, difendendo i diritti allo studio anche in situazioni critiche come queste. Questo è possibile grazie alla comunicazione che viaggia come un filo conduttore. Sono disponibili ed hanno a cuore la nostra sicurezza anche adesso sul lavoro e sui diritti professionali, come fossero dei genitori».

C’è qualcosa che vorresti aggiungere?

«Il reparto rappresenta il mappamondo, e noi infermieri siamo i fenomeni dell’universo poiché dalle nostre azioni si determinano conseguenze al suo interno. È essenziale dare il buon esempio e seguire scrupolosamente le regole del gioco per vincere questa guerra, di cui le raccomandazioni della vestizione e svestizione rappresentano le leggi della natura per la sopravvivenza».

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