«Contro le violenze sulle donne servono una rivoluzione culturale e più case rifugio»

Intervista a Valentina Raimondo: assistente sociale e referente del Codice rosa di Pistoia

La battaglia contro la violenza sulle donne «è da risolvere culturalmente». Valentina Raimondo, assistente sociale e referente del codice rosa di Pistoia, chiarisce i punti di una questione che riguarda moltissime donne senza grandi differenze di età, etnia, religione.

Principalmente quali sono le cause che portano una donna a non denunciare una violenza?

«Sono tanti i motivi per cui le donne vittime di violenza non denunciano e non solo per paura delle ripercussioni. Le motivazioni sono proprio intrinseche alla relazione maltrattante che nel caso della violenza di genere vede una asimmetria di potere tra l’autore e la vittima. È un processo lento in cui le donne vengono isolate, con una progressiva riduzione delle proprie relazioni sociali, del livello di autonomia creando quindi una dipendenza sulle cose basilari. In senso materiale staccarsi dal maltrattante significa non avere un’entrata economica, perché spesso sono donne a cui non viene permesso di lavorare, che non hanno un conto corrente. Spesso, distaccandosi, viene a mancare anche una casa. Frequentemente i maltrattanti agiscono la propria posizione di potere anche attraverso i figli.  Svalutano la funzione materna dicendo alle donne che sono inadeguate, depresse, matte. Una frase tipo è: «se te ne vai i tuoi figli si renderanno conto che non sei in grado, loro resteranno con me».  Un altro motivo più è subdolo è legato alla dipendenza affettiva. Lo svincolo dalla relazione maltrattante è difficile perché nella relazione maltrattante si alternano momenti di affettività di pentimento dell’autore, la cosiddetta “luna di miele” che genera confusione e mantiene la vittima in uno stato di ambivalenza: sanno che quello che succede non va bene, non lo vorrebbero ma non riescono psicologicamente e affettivamente a staccarsi dal maltrattante. Il maltrattamento è un processo lento che in cui la violenza psicologica si traduce in forme di discriminazione e di denigrazione della persona che alla lunga producono uno sgretolamento dell’autostima e della personalità: la donna viene quasi annientata nel suo nucleo vitale. Insieme, nasce una paura di non essere in grado di gestire e affrontare il tutto, e non ultimo la paura delle minacce. Insomma, il sistema è complesso però si stima che quando le donne prendono la forza di svincolarsi dalla relazione maltrattante esperiscono almeno 7/8 tentativi prima di riuscire a staccarsi».

Quanto è importante il percorso sociale per cercare di aiutare le donne?

«Il percorso di fuoriuscita dalla violenza che accompagna le donne vittime è complesso, lungo, e implica sostegni qualificati sia di tipo psicologico che sociale. Il sostegno sociale è importante anche e soprattutto perché mira all’empowerment ovvero alla capacità di autodeterminarsi. La rete codice rosa, dopo aver intercettato la donna vittima l’accompagna,  attivando vari percorsi tra cui la presa in carico dei centri antiviolenza e de servizi  sociali  e ha come obiettivo principale l’emancipazione della donna.

Il modello del codice rosa nasce con tale scopo: prima le donne che si rivolgevano ai servizi raccontavano, si aprivano, ma poi non c’era l’accompagnamento. È un aspetto fondamentale perché per una donna che si vuole staccare dal maltrattante, senza conto corrente, senza contatti con i familiari perché il marito l’ha fatta litigare con loro e non ci parla di anni, ha bisogno di basi e di percorsi di sostegno. Negli anni il sostegno sociale si è ampliato prevede interventi per la casa, percorsi di formazione e accompagnamento al lavoro, e non ultimo il supporto per i figli. Non è tutto facile, è vero, ma stiamo potenziando la capacità di risposta del nostro sistema di welfare per i bisogni sociali specifici delle donne vittime di violenza».

Una donna arriva in ospedale, poi cosa succede?

«La persona arriva in ospedale in tante forme. Può arrivare per violenza conclamata e allora l’intervento è in primo luogo di cura e tutela oppure in modo non dichiarato in cui si sospetta la violenza magari proprio per i ripetuti accessi: in questo caso i colleghi dell’ospedale fanno una rilevazione del rischio dalla quale comprendono il livello di rischio. Se il rischio è alto allora è necessario un immediato allontanamento in emergenza per messa in tutela oppure è se il rischio è basso allora è possibile fare interventi differiti attivando, attraverso la referente del codice rosa, i percorsi territoriali. A volte succede che le donne vittime non siano disponibili a intraprendere questo percorso, per esempio perché devono tornare a casa per accudire altre persone o animali che potrebbero subire a loro volta violenze. La funzione più importante è l’ascolto non giudicante che svolgono gli operatori del PS magari a partire da un malessere fisico come mal di testa o attacchi di panico, metta in parola la violenza.  Monitorando questi comportamenti, i racconti e gli accessi si percepisce che dietro c’è una storia di violenza, magari non in fase acuta, ma che è importante intercettare per evitare conseguenze peggiori. Una sorta di prevenzione dunque verso il futuro. Magari queste sono persone che hanno già una presa in carico sul territorio: magari vanno dall’assistente sociale per problemi con l’affitto, oppure dallo psichiatra per la depressione. Io come referente ho accesso ad alcune informazioni e parlando con il professionista di riferimento riesco a dialogare e a capire cosa succede. È un lavoro complesso, un lavoro di squadra in cui la logica di rete e di collaborazione è fondamentale».

Perché la tendenza è quella di mentire sulle cause della violenza?

«Per vergogna. Le donne spesso si vergognano fortemente: di loro stesse, di non aver saputo costruire una buona relazione, di non essere state capaci di reagire. Le donne maltrattate si danno colpe: di non essersi difese, di non aver protetto i figli, di non portare avanti una relazione sana. “Io non sono così tanto meritevole o bella, da potermi mettere il rossetto” pensano. Si percepiscono come invisibili e talvolta lo dichiarano.  E poi sanno – e qui arriva il meccanismo della dipendenza – che se vengono scoperte perderanno qualcosa a cui spesso sono attaccate morbosamente. Alla base c’è il discorso culturale, ancora oggi la nostra società è pervasa da una cultura maschilista, che confina la donna a ruoli stereotipati di donna oggetto, di moglie e madre che si sacrifica, perché deve far rimanere la famiglia unita. A volte assistiamo ad anziane abbandonate, e chiedendo ai figli il perché di questo abbandono, la risposta è che non perdonano la madre per averli fatti vivere in una situazione di violenza, il non aver allontanato il padre maltrattante. Sono donne che se non trovano la forza di denunciare e allontanarsi diventano veramente invisibili anche nell’età anziana. In sociologia si chiama profezia che si autodetermina. Tutto ciò è prevenibile, è evitabile».

Questi fenomeni sono più frequenti in determinate fasce d’età?

«La violenza è trasversale alle età e alle culture: le donne sono colpite per essere donne, per il loro genere.  A livello sociologico ci sono fasce più vulnerabili per età, per condizioni di salute, per assenza di reti familiari e sociali come nel caso delle donne straniere, o ancora per fattori come la depressione o la dipendenza da alcool. Spesso l’età media fertile, e in modo particolare la gravidanza, sono fasi in cui si rileva un maggiore rischio di violenza. Sono momenti in cui l’uomo autoritario teme di perdere il controllo, matura la consapevolezza che la donna sappia trovare tutte le risorse necessarie, per svincolarsi, cosa che non tollera per paura di non avere più una posizione dominante. La gravidanza è il momento in cui alla psicologica e di denigrazione costante della persona. Picchiare in gravidanza è considerato un fattore di rischio elevato, l’uomo non riesce a fermarsi neanche difronte alla particolare condizione “di stato interessante” che è un valore culturale fortemente radicato, e prevale la paura della trasformazione della donna capace di procreare e progredire, e quindi della perdita del controllo.  Subentrano anche la gelosia perché la donna pensa più a se stessa e al bambino. Le conseguenze sono molto gravi, parti pre termine, aumento del rischio di depressione post partum, aumento dei rischi per i nascituri. In questo senso la fascia dai 25-45/50 anni è quella dove è più evidente violenza domestica. I dati ci dicono che si registra una maggiore propensione delle donne più giovani a denunciare come se trovano oggi un po’ prima il coraggio di interrompere la violenza. Ma ancora sono tanti, troppi i fattori che inducono le donne a non denunciare.

Il territorio offre un supporto efficace e strumentazioni consone per combattere questa battaglia?

«È una battaglia da vincere culturalmente. Tutto è migliorabile, le risorse non bastano mai, perché ogni donna ha bisogni specifici. Il territorio ha tanto da offrire, anche se non abbiamo una casa rifugio sul territorio di Pistoia, come rete antiviolenza troviamo comunque le risposte. È necessario migliorare e strutturare le reti antiviolenza perché a nessuna donna manchi il sostegno quando lo chiede e perché non ci siano falle nel sistema di protezione. Ma sappiamo anche che la vera sfida è prevenire, è agire quel cambiamento culturale, che ci consegni stili di relazioni libere dalla violenza.

Margherita Barzagli

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