Gli infermieri e la Shoah: la tesi di laurea che fa luce su un mondo poco conosciuto

Il lavoro di Irene Quintavalle ricostruisce ciò che accadeva all’interno dei campi di concentramento da un punto di vista sanitario

Un nonno infermiere, l’altro deportato nei campi di concentramento. Scaturisce da qui l’idea di Irene Quintavalle di dedicare la propria tesi di laurea a un argomento su cui la letteratura è tutt’altro che vasta: il ruolo dei professionisti sanitari ai tempi della Shoah. Una realtà difficile da elaborare, anche se contestualizzata: «l’obbedienza era un valore molto importante in Germania – spiega Irene – e le infermiere dovevano obbedire alle loro colleghe di grado superiore così come ai medici. Difficilmente si può considerare questa circostanza un’attenuante per aver eseguito gli ordini, ma contribuisce a spiegare le motivazioni di parte degli infermieri».

Irene Quintavalle

Un lavoro che ha richiesto un processo molto lungo e tanta ricerca

«Si tratta di un lavoro che ha richiesto un processo molto lungo e tanta ricerca – racconta Irene che si è laureata nel 2020 e adesso lavora come infermiera al Pronto Soccorso dell’ospedale San Giovanni di Dio di Firenze -. L’idea è nata dal fatto che uno dei miei nonni era infermiere, l’altro è stato deportato in tempo di guerra e ho deciso di unire le due cose. Avevo letto “Se questo è un uomo”, in cui Primo Levi accennava all’infermeria presente nel campo in cui era recluso ma nessuno era mai andato a fondo sull’argomento, né fatto tesi in merito».

La ricerca è partita da “Rapporto su Auschwitz”

La ricerca è partita da “Rapporto su Auschwitz”, il report sulle condizioni sanitarie del Lager realizzato all’indomani della liberazione da Primo Levi e Leonardo De Benedetti, chimico e medico, su richiesta dei militari sovietici che controllavano il campo per ex prigionieri di Katowice, in Polonia. «Si tratta di un documento facilmente reperibile nel libro “Così fu Auschwitz” – spiega Irene -: un report molto dettagliato dal quale sono partita con l’intento di dare un’impronta personale, per dare voce a chi non ha avuta».

Il progetto Aktion T4 per i  cosiddetti usmerzen, “sotto-uomini”

Voci raccolte grazie al contatto prima con Aned e poi con l’Istituto storico toscano della Resistenza Firenze. Contatti a distanza, visto che la tesi è stata scritta in piena emergenza Covid. «In questo modo ho potuto avere accesso a un volume che raccoglieva le interviste dirette di deportati e medici che avevano lavorato nei campi e conoscere la storia del progetto Aktion T4, precursore dei campi di concentramento nato negli anni ’30 da idee mediche, e fare luce sul ruolo di medici e infermieri». Si tratta del programma nazista di eutanasia che prevedeva, sotto responsabilità medica, la soppressione di persone affette da malattie genetiche inguaribili e da portatori di handicap mentali: i cosiddetti usmerzen, “sotto-uomini”.

Il focus sui “meccanismi” di obbedienza degli infermieri durante la Shoah

«In qualità di infermiera, mi risulta difficile chiamare queste persone con lo stesso nome che è scritto sul mio camice – sono le parole di Irene -. Per questo ho cercato di riflettere sui rapporti tra il personale sanitario, sui meccanismi che potessero in qualche modo “vincolare” coloro che erano considerati infermieri a questo dovere». A fare da contraltare ci sono poi le storie di speranza e solidarietà come quella di Irena Sendler, l’infermiera polacca che salvò la vita ad oltre 2.500 bambini del ghetto di Varsavia.

I processi ai sanitari: Norimberga e Obrawalde

La tesi affronta anche i processi a cui vennero sottoposti i professionisti sanitari: quello ai medici, nel 1946 a Norimberga, e il processo agli infermieri della struttura sanitaria di Obrawalde nel 1965 a Monaco. Storie da una parte e dall’altra della barricata che hanno dato vita a un lavoro che punta a offrire una ricostruzione dello stato di salute e malattia e dell’assistenza nei campi di concentramento, dopo le leggi di Norimberga, le leggi razziali e quello che oggi viene chiamata Shoah, e sulla figura dell’Infermiere.

L’obiettivo: ricostruire ciò che accadeva all’interno dei campi di concentramento da un punto di vista sanitario

«Parlando di guerra e campi di concentramento – scrive Irene -, è difficile pensare che all’interno dei cosiddetti Lager potesse esserci stata una forma di assistenza sanitaria nei confronti dei prigionieri, che possa esserci stata una struttura adibita alla cura. L’obiettivo della mia tesi è quello di ricostruire ciò che accadeva all’interno dei campi di concentramento da un punto di vista sanitario, definire quali fossero le condizioni di vita dei deportati e quali patologie ne derivassero e verificare se effettivamente all’interno dei Lager vi fossero accortezze sanitarie».

A seguire, è possibile leggere l’estratto della tesi di Irene Quintavalle e scaricare il lavoro integrale.

 

L’assistenza sanitaria all’interno dei campi di concentramento

Obiettivo della mia tesi è stata la ricostruzione dello stato di salute e malattia e dell’assistenza nei campi di concentramento, dopo le leggi di Norimberga, le leggi razziali e quello che oggi viene chiamata Shoah e sulla figura dell’Infermiere.
Non esiste molta documentazione su questo tema e le testimonianze sono ormai rarefatte dato il lungo periodo trascorso: documento di fondamentale importanza è il Rapporto ufficiale di Primo Levi e Leonardo De Benedetti scritto a seguito di una richiesta da parte del Comando russo del campo di Katowice nella primavera del 1945, che descrive l’assistenza sanitaria all’interno del campo di concentramento di Monowitz.

Il precursore dello sterminio è stato il progetto T4 che ebbe inizio con l’emanazione della Legge sulla prevenzione della nascita di persone affette da malattie ereditarie in Germania, che stabiliva la sterilizzazione forzata di persone affette da malattie ereditarie o psichiatriche, oltre che da ogni forma di disabilità. Da qui si estese il progetto di eutanasia Aktion T4 ai campi di concentramento dove i medici dovevano visitare i malati di mente e i detenuti ebrei e decidere chi eliminare.

Mi sono concentrata sul campo di Monowitz, esaminando la vita nel campo e le problematiche sanitarie, analizzando le strutture ambulatoriali e le disponibilità farmacologiche, con particolare attenzione al personale che lavorava all’interno dell’ospedale. I medici erano gli unici ad avere una certificazione che riconosceva la loro professione. Gli infermieri e gli assistenti, a differenza dei medici, spesso non possedevano qualifica né competenza, ma venivano reclutati sulla base della robustezza oppure grazie a medici loro amici.

Alla luce dell’importanza del rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo e dei principi etici della professione infermieristica mi sono soffermata sui professionisti coinvolti sia nell’operazione T4, sia nelle sterilizzazioni forzate, cosi come nell’osservare impassibili alla morte di molti pazienti per fame e inedia.
In qualità di infermiera, mi risulta difficile chiamare queste persone con lo stesso nome che è scritto sul mio camice. Per questo, ho cercato di riflettere sui rapporti tra il personale sanitario sui meccanismi che potessero in qualche modo “vincolare” coloro che erano considerati infermieri a questo dovere.
L‘obbedienza era un valore molto importante in Germania e le infermiere dovevano obbedire alle loro colleghe di grado superiore così come ai medici.
Difficilmente si può considerare questa circostanza un‘attenuante per aver eseguito gli ordini, ma contribuisce a spiegare le motivazioni di parte degli infermieri.
Tra tutti coloro che obbedirono, spicca la figura di Irena Sendler, l’infermiera che salvò la vita ad oltre 2500 bambini: ottenuto un lasciapassare nel ghetto di Varsavia, per la disinfestazione, in realtà organizza una rete di soccorso procurando cibo, generi di conforto e vestiti, diventando attivista dell’organizzazione segreta “Consiglio per l’aiuto agli Ebrei” (con il nome in codice di Zegota). Alla decisione dei tedeschi di liquidare il ghetto inizia a trasferire i bambini, vestita da infermiera, nascondendoli nelle ambulanze. Spesso i piccoli vengono addormentati con i sonniferi e rinchiusi in un sacco o in una cassa per passare nella parte ariana, facendo credere agli uomini della Gestapo che si tratti di pazienti morti per tifo. Dopo l’uscita dal ghetto i bambini erano raccolti in centri di assistenza, dove imparano ad adattarsi al nuovo ambiente, e poi assegnati a famiglie, orfanotrofi o conventi. Conservò tutti i dati dei bambini, dei loro genitori biologici e di quelli adottivi. Grazie a lei i bambini hanno potuto rincontrare le proprie famiglie dopo la guerra.

Mi sono infine dedicata ai processi a cui vennero sottoposti i professionisti sanitari. Il processo dei medici nel 1946 a Norimberga e il processo agli infermieri della struttura sanitaria di Obrawalde nel 1965 a Monaco.
Molti studiosi hanno cercato di spiegare come professionisti della salute abbiano potuto convertire la loro etica a questo progetto, snaturando la loro missione: se lo psichiatra Robert Lifton ha pensato a uno sdoppiamento della personalità, lo psicologo Philip Zimbardo ha parlato di “effetto Lucifero” per il quale chi subisce un processo di spersonalizzazione arriva a compiere atti violenti ed impensabili.

La scoperta dei crimini commessi dai medici nei campi di concentramento nazisti determinò una svolta nell’etica medica, ma oggi sono diversi anche i protagonisti. Con gli anni la figura dell’infermiere si è evoluta sino ad arrivare a rispecchiare il suo ruolo odierno, un soggetto attivo, che agisce in prima persona con autonomia di scelta e responsabilità entro una cornice valoriale in cui il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo e dei principi etici della professione è condizione essenziale per assistere e perseguire la salute intesa come bene fondamentale del singolo e interesse peculiare della collettività.

Alla luce di quanto scritto in circostanze particolari quali una pandemia e superati i 200 anni dalla nascita della fondatrice della nostra professione Florence Nightingale mi sento di dover sottolineare in primo luogo il valore della salute e la necessità di tutelarla con ogni intervento o strumento a disposizione, per assicurare alle persone il diritto alle cure. Lo stanno dimostrando i miei colleghi nei fatti, in un’emergenza a cui nessuno di noi avrebbe voluto assistere. A questi infermieri dunque, il cui quotidiano stride così tanto con quello di chi utilizzava il nome “infermiere” per prestarsi a pratiche di morte, va il riconoscimento di un contributo di professionalità, vicinanza e di vita.

Irene Quintavalle

[Scarica la tesi in formato PDF]

Open chat
Hai bisogno di informazioni?
Scan the code
Powered by weopera.it
Ciao
Come posso aiutarti?

Se non hai WhatsApp Web sul tuo PC, puoi scansionare il codice dal tuo Smartphone per metterti in contatto con noi.