Infermiere pediatrico di comunità: una figura per l’assistenza dei più giovani

Paola Stillo (Opi Fi-Pt): «L’assistenza va modulata sui nuovi bisogni di salute»

Cronicità, disabilità, salute mentale: le nuove generazioni sempre più si trovano a confrontarsi con patologie o disturbi che necessitano di un’assistenza specifica. Per questo la Commissione pediatrica di Opi-Firenze Pistoia ha stilato un progetto che prevede l’istituzione dell’infermiere pediatrico di comunità. Una figura presente sul territorio, in famiglia, ma anche nelle scuole, dove i bambini si trovano a portare in classe le proprie necessità di salute spesso senza un adeguato supporto assistenziale. Una situazione che grava anche sulle loro famiglie. Ne abbiamo parlato con Paola Stillo, infermiera pediatrica e coordinatrice del pronto soccorso del Meyer di Firenze, oltre che membro della commissione pediatrica di Opi Firenze Pistoia.

Come pensa sia possibile raccordare al meglio l’area pediatrica con gli altri ambiti dell’assistenza?

«C’è la necessità di inserire una figura a livello territoriale. La pediatria è cambiata in maniera profonda negli ultimi anni. Sono riemerse patologie scomparse e se ne presentano di nuove. In più la tecnologia ha portato a situazioni di sopravvivenza impensabili fino a 20 anni fa. Dovremmo uscire dalla logica in cui l’assistenza infermieristica coincide con il ricovero in ospedale. La presa in carico può e deve essere fatta ovunque la persona sia, ovunque abbia bisogno. La maggior parte dei problemi di salute si può gestire a livello territoriale: in famiglia, nelle case salute, anche a scuola. Bisogna uscire dal Meyer ed entrare nella rete».

Quali sono i prossimi progetti in questo ambito?

«La commissione pediatrica di Opi Firenze – Pistoia ha presentato un progetto da sottoporre alla Regione Toscana relativo alle criticità emerse in emergenza Covid. Abbiamo messo in luce la debolezza del sistema sul territorio e lavorato sulla figura dell’infermiere pediatrico di comunità. La fascia pediatrica (0-19 anni) rappresenta circa il 18% popolazione che ha esigenze di salute e di educazione alla salute che negli ultimi anni sono andate incontro a un aumento della domanda. Ci sono sempre più minori con patologie croniche e disabilità che affrontano il mondo della scuola. Ma sono aumentati anche problemi di salute mentale in adolescenza, i disturbi alimentari, l’abuso di sostanze stupefacenti. I bisogni di salute sono cambiati e non possono trovare risposta solo nell’assistenza ospedaliera, ma prioritariamente in quella territoriale».

 

Anche la scuola, quindi rappresenta un punto di contatto fondamentale?

«Qualche anno fa esisteva la figura dell’infermiere scolastico che ora è scomparso dai radar ma che dovrebbe essere ripristinato. Le cronicità, le disabilità, devono poter essere gestite in maniera corretta. Nelle scuole oggi ci sono tanti bambini con diabete, malattie metaboliche o gravi disabilità e chi se ne fa carico sono soprattutto i genitori. Il fatto di avere una figura preparata dedicata alla scuola può aiutare. Non solo a gestire il problema di salute ma anche a educare compagni e insegnati e aiutare i ragazzi a convivere con questo problema di salute. L’infermiere pediatrico scolastico potrebbe essere una figura importante, nel più ampio ambito dell’infermiere pediatrico di comunità».

Ci sono criticità nell’ambito dell’infermieristica pediatrica?

«Credo non sia più rimandabile la necessità di riconoscere le competenze dell’infermiere pediatrico e garantire la sua presenza nella rete dei servizi pediatrici territoriali. L’infermiere pediatrico è una figura specializzata e riconosciuta a livello di legge ma ad oggi, anche negli ospedali pediatrici dove la maggior parte dell’assistenza dovrebbe essere fatta da infermieri pediatrici, si è deciso di impiegare per lo più infermieri generalisti. Dovremmo cambiare rotta. Ognuno ha diritto di essere seguito e preso in cura da professionisti con competenze ottimali».

Quali sono le peculiarità dell’approccio di un infermiere pediatrico?

«A livello di approccio quello dell’infermiere pediatrico è un lavoro ampio. Che include la capacità di entrare in contatto con la famiglia, e ogni famiglia è ovviamente un mondo a sé, ma anche di utilizzare meccanismi mentali differenti. Un adulto ha meccanismi mentali uguali ai tuoi, quello fra adulti è uno scambio alla pari. Con un bambino non è così. Usiamo un linguaggio diverso se abbiamo davanti un bimbo di 3 o 10 anni. Un infermiere pediatrico deve essere anche uno specialista nella relazione e nella comunicazione e tenere conto che ogni bambino, ogni famiglia, ogni contesto è diverso. Deve anche saper tornare ogni volta un po’ bambino per sintonizzarsi sul giusto canale comunicativo».

Come è/è stata la situazione in fase di emergenza?

«Come quasi tutti i reparti pediatrici, l’abbiamo vissuta abbastanza serenamente. Sapevamo che dal punto di vista epidemiologico la situazione era sotto controllo, la presenza di Covid nei bambini è stata molto bassa. Alcuni studi cinesi attestavano il 2% di contagiati sotto i 17 anni, quindi i dati erano incoraggianti. Il problema è che ovviamente, il bambino è sempre accompagnato da un adulto: quindi abbiamo dovuto mettere in atto tutte le procedure necessarie, inclusi i tamponi e la limitazione degli accompagnatori. E questo non sempre è stato percepito in maniera positiva, soprattutto nel caso di pazienti con lunga degenza. Quindi i problemi sono stati di tipo organizzativo piuttosto che assistenziale; il maggiore impatto è stato sul cambio di abitudini per l’utenza».

 

 

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