Infermieri e Covid: l’intervento di Eleonora Bettazzi

La testimonianza dell’infermiera di Terapia Intensiva letta durante l’evento di Opi Fi-Pt “Ho vissuto il Covid. Chi ero? Chi sono?“.

 

“Era appena scoppiata la pandemia quando è arrivata quella telefonata: era arrivato il trasferimento e dal reparto di medicina sarei potuta andare a lavorare in TI. L’entusiasmo era altissimo e l’idea di poter dare un contributo in quel reparto dove c’era bisogno di aiuto mi rendeva fiera.

Erano i primi di marzo quando è iniziato tutto e nessuno di noi sapeva cosa stesse accadendo davvero.

Eravamo tutti impauriti, terrorizzati da questo virus sconosciuto.

La TI in pochi giorni aveva cambiato il proprio assetto, c’erano molti colleghi nuovi, sembrava di vivere in una realtà parallela.

Indossavamo le tute senza lasciare nemmeno un centimetro di pelle scoperta e ci scrivevamo dietro i nomi perché vestiti a quel modo non ci riconoscevamo. I turni sembravano infiniti perché rimanevamo dentro il  reparto senza uscire per molte ore, senza bere. Poi arrivava il momento della svestizione: ci spogliavamo facendo attenzione  a non contaminarci per paura di contrarre il virus.

Anche tornare a casa era difficile  perché lì vivevamo nel terrore di poter contagiare i nostri cari e allora cercavamo di dormire in camera da soli, di mangiare ad orari diversi. Tornavamo a casa stremati, con il volto segnato dalle mascherine, con tante cose da raccontare ma senza la forza di farlo.

Era dura, ma tra noi colleghi si instaurava un legame forte, un legame di squadra, sentivamo il sostegno gli uni degli altri.

In quel periodo lavoravamo sulla scia del supporto che arrivava dall’esterno: c’erano continuamente articoli di giornale e servizi televisivi che elogiavano il lavoro degli infermieri, amici e conoscenti ci ringraziavano per il lavoro svolto e questo ci rendeva più forti.

Ci chiamavano “eroi”, un appellativo che forse non amavamo ma che ci rendeva orgogliosi e onorati di indossare la nostra divisa.

Erano giornate ricche di emozioni forti.

Noi infermieri siamo abituati a vedere persone sofferenti, ci ritroviamo spesso a vedere la morte in faccia, ma questa volta era diverso. Questa volta prendevamo coscienza che quella sofferenza era causata da un virus che non risparmiava nessuno, giovani e anziani, persone che fino ad un attimo prima conducevano la loro vita e che poi si ritrovavano lì, con la fame d’aria, ad avere bisogno di un tubo per respiarare.

Tanti volti, tante storie; vedevamo il terrore negli occhi dei nostri pazienti, la paura di  morire, immagini che non potremo mai dimenticare.

Facevamo lo spoglio degli effetti personali dei pazienti e qualche volta ci capitava di trovare, nelle tasche dei loro pantaloni, le chiavi della loro macchina e quindi capivamo che quel paziente era arrivato in ospedale da solo in auto. E allora ci sentivamo ancora più coinvolti in quel vortice e ci chiedevamo se tutto questo avrebbe potuto colpire anche noi o qualcuno dei nostri cari.

Al Covid associamo tanta sofferenza, ma soprattutto tanta solitudine. Quei pazienti erano soli, venivano in ospedale rimanendo lontani dai loro affetti. Molti dei nostri pazienti non ce l’hanno fatta, molti di loro sono andati via da casa e non ci sono più tornati; quanti genitori senza rivedere i figli, o figli senza rivedere i genitori, o mogli senza rivedere i mariti.

Cercavamo di stare vicino ai nostri pazienti, quasi a cercare di colmare la mancanza della presenza dei loro cari; ma accarezzavamo le loro mani attraverso i guanti, i nostri sorrisi erano nascosti dalle mascherine, per quanto calore cercassimo di dare loro, i nostri rimanevano gesti freddi.

Il momento più brutto era quello in cui qualcuno di loro non ce la faceva. Non dimenticheremo mai le immagini di quei corpi che scomparivano dentro a quei sacchi freddi, quei corpi che nessuno avrebbe più visto e che ci lasciavano per sempre. Eravamo noi le ultime persone che li avevano visti ed eravamo noi che insieme a loro avevamo perso quella battaglia. Ci chiedevamo se un essere umano meritasse tutto questo e a questa domanda non ci siamo mai dati risposta. 

Nonostante tutto non ci siamo mai dati per vinti e abbiamo gioito tutte le volte in cui un nostro paziente si è svegliato ed è riuscito a sconfiggere il covid; ci ha dato la forza di andare avanti e ci ha riempito il cuore perché in fondo è questo che ci rende ricchi e ci fa amare il nostro lavoro.

Questo covid ci ha cambiati, ci ha lasciato dentro un vuoto difficile da esprimere, ma ci ha resi consapevoli di quanto il nostro lavoro sia prezioso e di quanto anche solo un nostro gesto possa diventare l’unico punto d’appiglio per chi lotta”.

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