Intervista a Paolo Zoppi, direttore del Dipartimento Assistenza Infermieristica e Ostetrica dell’Azienda USL Toscana Centro
C’è un modo di fare assistenza pre-Coronavirus e uno post-Coronavirus? Sicuramente questa emergenza ha evidenziato una serie di criticità ma anche di punti forti sui quali fare leva nell’ambito dell’assistenza infermieristica. Come riorganizzare, dunque, l’infermieristica nel dopo Coronavirus e quali insegnamenti trarre da questa emergenza? L’Ordine delle professioni infermieristiche di Firenze-Pistoia ha approfondito il tema con Paolo Zoppi (nella foto), Direttore del Dipartimento Assistenza Infermieristica e Ostetrica dell’Azienda USL Toscana Centro. È emerso così che la presa in carico, la continuità e la personalizzazione sono le chiavi di volta di un efficace modello assistenziale infermieristico territoriale al centro del quale c’è la persona, ed un ruolo importante sarà quello dell’infermieristica di famiglia e comunità.
Cosa ha evidenziato questa emergenza a livello territoriale?
«In primo luogo tengo a sottolineare che ha evidenziato il grande senso del dovere di tutti gli operatori coinvolti che hanno messo a disposizione le loro competenze, la loro grande professionalità e passione, mettendo spesso in gioco anche emozioni forti.
Riguardo alla domanda sicuramente ha evidenziato la necessità di intensificare gli investimenti sul territorio che, da un punto di vista di assistenza infermieristica, andrà presidiato sempre di più, investendo in risorse ma anche in organizzazione. In secondo luogo è emersa la necessità di creare dei punti di contatto con le strutture residenziali, che sono un altro tema molto importante: dovremo condividere maggiormente percorsi, i processi di lavoro e gli strumenti operativi. Queste azioni porteranno ad un beneficio per l’intero sistema ma soprattutto per i percorsi di salute dei cittadini stessi».
Si può dire che il Coronavirus ha insegnato qualcosa anche in ambito ospedaliero?
«L’emergenza Covid ha dimostrato la necessità di allentare la pressione su presidi ospedalieri in particolare sui DEA. In piena fase emergenziale siamo arrivati ad avere appena il 30% – 40% di presenze in pronto soccorso rispetto al periodo pre-covid. Ora siamo già tornati al 60% – 70% e speriamo di rimanere su questi livelli. Certo dovremo anche cambiare delle regole nell’organizzazione e fare in modo che il DEA, in certe situazioni, non sia l’unica soluzione possibile creando dei percorsi di risposta alternativi all’ospedale. Questa riflessione ci riporta al tema di prima, ovvero alla necessità di puntare sul territorio anche per rispondere al sovraffollamento dei pronto soccorso ospedalieri».
Qual è, secondo lei, la strada da seguire?
«Siamo convinti che promuovere la presa in carico, la continuità e la personalizzazione dell’assistenza ai pazienti il più possibile presso il loro domicilio e ambiente di vita, rappresenti la chiave strategica migliore. Questo si può ottenere puntando rapidamente a completare su tutto il territorio della ASL il modello organizzativo dell’infermiere di famiglia e comunità. Una seconda strada è quella di intercettare il bisogno “urgente” di assistenza infermieristica che spesso conduce le persone ai nostri Pronto Soccorso per carenza di alternative e quindi in maniera inappropriata, ma inevitabile. Dovremmo creare le condizioni perché il cittadino trovi più risposte, assistenziali ma anche di livello specialistico, presso la sua abitazione. Il presupposto assistenziale di questa nuova organizzazione sarà l’aver assegnato in ogni zona, geograficamente definita, un suo IFC; il nostro modello di riferimento».
Che valore ha questo modello sul territorio?
«Rappresenta il miglior modo per spingere sulla relazione persona- infermiere e quindi sul territorio questo modello vale moltissimo, ancora di più in un momento storico come questo. Per realizzare una vera presa in carico e personalizzazione dell’assistenza, in grado di essere concorrenziali con l’accesso ospedaliero, dobbiamo creare una relazione assistenziale stabile fra IFC e le persone che abitano in quel determinato territorio e che gli sono affidate. Con il tempo, grazie proprio alla precisa definizione di questo binomio, si potrà sviluppare una relazione di conoscenza molto importante grazie al fatto che le persone avranno sempre a che fare con lo stesso Infermiere, che le seguirà nel tempo. Naturalmente il quadro si completa con la piena integrazione con i medici curanti. Questa integrazione dell’IFC con il Medico di Medicina Generale (MMG) e con il resto delle risorse della rete sarà caratterizzata dalla condivisione degli obiettivi generali di salute delle persone, mai dalla dipendenza gerarchica, portando ognuno il proprio contributo di competenze professionali specifiche; competenze che costituiranno il panorama più ampio e più ricco di risposte ai bisogni. L’ambito domiciliare, l’ambiente di vita, proprio per le ragioni esposte in precedenza, dovrà diventare il contesto preferenziale in cui perseguire gli obiettivi di salute dei singoli, delle famiglie e delle comunità».
Qual è lo scoglio principale da superare?
«Credo che sia necessario superare l’idea che l’IFC possa essere invasivo rispetto ad altre competenze presenti e necessarie al sistema; o addirittura, per contrappasso, di un IFC assegnato gerarchicamente e funzionalmente ad altri professionisti. Il nostro sistema ha dei bisogni talmente complessi che ci impone di superare queste discussioni ormai obsolete ed improduttive. I bisogni dei cittadini contano sulle competenze e sulla capacità che dimostreremo nel farle lavorare insieme, in maniera parallela ed integrata, medici ed infermieri, per costruire le risposte più adeguate ai bisogni delle persone.
E’ fondamentale assegnare ad ogni IFC una popolazione, definita per aree, che possono essere una parte di un quartiere cittadino oppure un piccolo paese; in modo tale che quell’infermiere abbia tutta la sua comunità concentrata in una zona e che questa comunità lo riconosca per la funzione che svolge. Se volessimo coniare uno slogan potremmo dire: “l’IFC deve avere i cittadini vicini e gli altri professionisti collegati”, utilizzando le possibilità che la tecnologia ci offre.
Ci sono esperienze nazionali ed internazionali che mostrano l’efficacia e l’efficienza di questo modello ed anche le nostre prime misurazioni degli indicatori, a dei pazienti e a dei caregiver, mettono in evidenza la grande soddisfazione delle persone che “non rinuncerebbero mai al loro infermiere”.
Sulla base di questo assunto si è definito che ogni area, detta cellula assistenziale, affidata ad un infermiere deve avere una popolazione di 3500 persone circa, non pazienti ma abitanti, che possono aumentare in zone densamente popolate e diminuire in aree con più bassa densità abitativa».
Quali sono i punti chiave del modello di assistenza che vede al centro l’infermiere di famiglia?
«Uno dei punti chiave è come detto la territorialità, con l’affidamento all’infermiere di famiglia e di comunità delle aree geograficamente definite. Un secondo punto è la trasversalità, ovvero la capacità di comprendere bisogni diversi, valutarne la portata e con il MMG, per organizzare delle risposte diversificate e personalizzate rappresenta una ulteriore chiave strategica. Cosa significa? Vuol dire che l’IFC, condividendone l’opportunità con il curante, potrà far intervenire un collega esperto, ad esempio in lesioni da compressione o in stomie, per offrire una risposta più approfondita alla persona. Inoltre l’IFC avrà sempre con sé un vademecum aggiornato costantemente, con la descrizione di tutti i servizi sanitari presenti nella zona in modo da poter rispondere alle domande, dando anche indicazioni su come poterli utilizzare. Come si vede il legame con il territorio e con la comunità affidatagli è fondamentale per dare un servizio migliore».
Cosa direbbe alle persone che hanno affrontato questa emergenza?
«Durante il lockdown ho avuto modo di visitare tutti gli ospedali dell’Azienda, più volte. Ho visto tanti occhi e tanti visi segnati dalla stanchezza; occhi consapevoli di aver dato il massimo delle loro possibilità. Mi piacerebbe che si smettesse di chiamarli eroi, sono dei professionisti seri e preparati, con un grande senso del dovere e di appartenenza ad una comunità profondamente ferita, a cui hanno dato il loro importante contributo professionale ed umano.
Provo orgoglio e gratitudine nei confronti di tutti gli operatori, Infermieri OSS e Ostetriche, ed anche agli appartenenti alle altre professioni, che sono state in prima linea fisicamente, dentro tute asfissianti e anche a coloro che in prima linea ci sono stati ‘con la testa’. Mi riferisco a coloro che nei reparti e nei territori sono stati al fianco dei cittadini per assisterli e anche a coloro che si sono occupati di gestire la parte organizzativa di questa emergenza. È stato un momento difficile, ma gli operatori sanitari possono essere orgogliosi del lavoro svolto. Non in ultimo esprimo loro la mia gratitudine come cittadino».
L’infermiere di famiglia e di comunità
Istituito con la delibera regionale 597 del 4 giugno 2018, l’infermiere di Famiglia e comunità è nato con il preciso scopo di ‘creare’ una figura che desse gambe a un modello di assistenza orientato alla famiglia e alla comunità. Con l’intento, fra le altre cose, di favorire la deospedalizzazione e presidiare l’efficacia dei piani terapeutico-assistenziali per migliorare la qualità di vita della persona nel suo contesto di vita. La figura che, secondo l’Oms, aiuta gli individui ad adattarsi alla malattia e alla disabilità cronica trascorrendo buona parte del suo tempo a lavorare a domicilio della persona assistita e della sua famiglia.
L’Ordine delle professioni infermieristiche di Firenze-Pistoia chiede da tempo una valorizzazione forte di questa figura. L’infermieri di famiglia è infatti il professionista, responsabile della gestione dei processi infermieristici in ambito familiare, che promuove un’assistenza di natura non solo curativa e riabilitativa ma anche preventiva, differenziata per bisogno e per fascia d’età, attraverso interventi domiciliari e/o ambulatoriali che portano a risposte ai bisogni di salute della popolazione di uno specifico ambito territoriale di riferimento. Un vero e proprio punto di riferimento con competenze trasversali, che lavora in sinergia con il medico curante e, se necessario con colleghi esperti in ambiti specifici, per avvicinare sempre più la risposta sanitaria al cittadino operando sul territorio.
/Riproponiamo l’intervista uscita sul quotidiano La Nazione in data 12 luglio/