«Per individuare le violenze è essenziale saper cogliere il non detto»

Conversazione con Nicoletta Corsi, infermiera coordinatrice dell’ospedale San Jacopo di Pistoia

di Margherita Barzagli

Come si affrontano i casi di violenza che arrivano in ospedale? Quali sono le procedure previste, fra iter da rispettare e operatori sanitari sempre più preparati a gestire queste situazioni? Nicoletta Corsi, infermiera coordinatrice dell’ospedale di Pistoia, fa il punto della situazione.

Com’è e qual è l’iter una volta che in ospedale arriva una vittima che ha subito violenze?

«La persona che si presenta per qualsiasi tipo di problematica e di violenza di genere, viene registrata dall’infermiere di triage, che ne prende i dati anagrafici e scrive ciò che viene raccontato, attenendosi scrupolosamente a quanto dichiarato dalla vittima. Quando la vittima parla spontaneamente e in maniera palese dell’aggressione bisogna registrare quanto dichiarato, compreso nominativo e grado di parentela del presunto aggressore o maltrattante. Prima veniva infatti spesso messo “persona nota o conosciuta” e poi in sede di tribunale tutto veniva smontato perché non era possibile risalire a chi fosse stato l’artefice della violenza o dell’episodio».

 

E quando invece la violenza non viene dichiarata?

«La questione si complica. Un esempio è quando ci sono dei segni che l’infermiere deve decodificare e che potrebbero significare che la persona è vittima di violenza: per esempio accessi ripetuti in pronto soccorso, problematiche legate a problemi ginecologici durante le gravidanze, accessi ripetuti di  anziani con traumatismi, situazioni legate a stress emotivo o ansia; oppure anche atteggiamenti dell’accompagnatore e della vittima particolarmente strani (per esempio se l’accompagnatore vuole parlare al posto della vittima). Si cerca di sapere cosa è successo direttamente, come è avvenuto l’episodio, dalla vittima presunta.

Questi sono segnali che dovrebbero far scattare un campanello d’allarme nell’operatore del triage per attenzionare la vittima e farla inserire nel percorso “codice rosa” che magari sarà confermato o meno durante la visita e il colloquio col medico. Prese queste informazioni, la vittima viene accompagnata ora nella stanza riservata alle vittime di violenza e lì deve essere presa in carico in tempo breve, di 20 minuti».

 

Cosa succede da questo momento?

«L’equipe composta da medico, infermiere e Oss fa il colloquio, che dovrebbe rispettare le tempistiche del paziente, che è molto vulnerabile, per favorire appunto la sua apertura e fargli superare la vergogna e le difficoltà anche da un punto di vista di paura del giudizio. È importante dunque rispettare i tempi di chi racconta e non incalzare, perché non è facile raccontare quel tipo di vissuti. Dopodiché si procede con le autorizzazioni per fare le foto, i prelievi e gli esami necessari.

La violenza può essere un maltrattamento con lesioni fisiche, fino ad arrivare a una violenza sessuale. Pertanto, a seconda della tipologia di violenza, servono consensi diversi: vengono fatte queste azioni differenti per avere prove in più in sede di tribunale. Queste persone infatti hanno come caratteristica anche le fragilità psicologiche e cognitive e possono raccontare cose diverse in momenti differenti: spesso gli avvocati si attaccano a questi espedienti per mettere in dubbio la dichiarazione della vittima. Ecco perché è necessario avere prove certe, immodificabili e inconfutabili di lesioni e quanto altro sia visibile che si riesce a reperire.

Nel caso di maltrattamento e di violenza viene anche fatta valutazione sul rischio di rivittimizzazione. Ci si pone questa domanda: la vittima può tornare autonomamente a casa oppure è a repentaglio dell’aggressore e rischia che questo nuovamente possa aggredirla, anche e soprattutto perché è andata in ospedale? Viene dunque chiesto, con domande indirette, se ci siano rischi a tornare al domicilio oppure se la vittima possa essere accolta da una rete amicale e familiare che possa sostenerla in questa situazione delicata.

Se la persona non ha nessuno, viene attivato, previo consenso vittima, il servizio di emergenza-urgenza sociale e così viene inserita in una casa rifugio o in una sistemazione segreta per stare al sicuro. Alcuni reati, quali i maltrattamenti, nel senso di lesioni ripetute di vario tipo, sono procedibili d’ufficio. Viene inviata la segnalazione alla procura con tutti i documenti dicendo ciò che è stato fatto, i campioni inviati, le foto raccolte. La procedura a questo punto è giuridica e territoriale. Le vittime una volta che non hanno necessità di pronto soccorso o di ospedale possono contare sulla rete e vengono rimandate sul territorio, integrandole gradualmente».

 

Chi sono le vittime? Cosa è la violenza?

«La vittima è una persona fragile, che si trova in una posizione diversa, in “down”, rispetto a un aggressore. Ovviamente, si può trattare anche di anziani e, più in generale, di persone incapaci di badare a se stesse, come i bambini. I familiari che non li assistono commettono un maltrattamento, così come in alcuni casi i badanti. È difficile che gli anziani dichiarino condizioni di questo tipo: sta dunque nell’operatore del triage, nell’equipe medica intercettarle: se vengono visti lividi particolari viene fatta una valutazione per capire e magari la violenza emerge piano piano. L’anziano è vulnerabile, ha paura».

 

Come funzionano solitamente i casi fra gli anziani?

«L’anziano arriva per un motivo di salute, l’operatore nota i lividi e chiede come se li è fatti. Viene controllato se è la persona trascurata o denutrita: in quel caso vuol dire che non è curata bene. Viene evidenziato se le terapie e i controlli sono stati fatte o se sono stati disattesi. Anche le patologie legate alla mancata cura sono infatti annoverabili come violenza».

 

Sono molti i casi di anziani vittime di violenza?

«Ci sono abbastanza casi. E sono più difficili da individuare, perché gli anziani spesso hanno paura di non poter restare a casa loro. Per questo, chi ha capacità cognitive, preferisce stare così, nascondere, ed evitare di andare in Rsa».

 

È più urgente insegnare a difendersi e a denunciare oppure a non essere violenti?

«Insegnare a non essere violenti. Occorre combattere la cultura della violenza. È un reato procedibile d’ufficio anche far assistere un bambino a scene di violenza: si tratta di violenza assistita, significa abituare a questa tipologia di comportamento, di relazioni. E tutto questo si ripercuote sul piccolo, che quando sarà adulto riproporrà questo tipo di comportamento ritenendolo normale. È importantissimo cercare di interrompere la spirale della violenza».

 

Cosa fanno e cosa altro potrebbero fare gli ospedali per cercare di sovrastare queste violenze?

«L’ospedale non ha grandi mezzi di prevenzione. Può continuare però a seminare la cultura della non violenza. L’ottimale sarebbe avere un’equipe di professionisti preparati a occuparsi di queste problematiche, che non sono pochissime e quando ci sono serve tempo. Servirebbe il potenziamento del personale con una formazione ad hoc, per assicurare empatia alla vittima, per dare una mano e sospendere la situazione. Oggi può essere un pugno, domani una cosa più grave. E serve tempo, non è un cerotto o una medicazione».

 

La Toscana rispetto alle altre regioni registra più o meno casi?

«Il problema è tanto presente quanto culturalmente gli operatori sanitari sanno leggerlo. Se la Toscana ha tanti casi è perché è più brava a riconoscerli. È un fenomeno trasversale per fasce di età e di estrazione sociale: le professioni e lo status sociale non ci mettono a riparo dalla violenza. In Toscana è tanto tempo che si lavora sul codice rosa: da Grosseto, apripista in questo ambito è partito un progetto regionale e poi nazionale. È necessario cercare di cogliere i piccoli segnali che ci possono indirizzare in un senso o in un altro per le violenze. Il “codice rosa” serve a questo: a cogliere il non detto, il sospetto, a scavare nelle situazioni».

 

 

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