«Un profilo proteomico per ciascun individuo alla base di una nuova strategia terapeutica per l’Alzheimer»

A parlarci della malattia e delle ultime scoperte è la professoressa Cristina Cecchi dell’Università degli Studi di Firenze

«È la patologia neurodegenerativa più diffusa, colpisce oltre 50 milioni di persone in tutto il mondo, in particolare la popolazione anziana». È così che Cristina Cecchi inizia a parlarci dell’Alzheimer, in occasione della giornata mondiale che si celebra il 21 settembre. La professoressa si occupa di questa malattia da oltre venticinque anni, coordina un gruppo di ricerca che studia le malattie neurodegenerative presso il Dipartimento di Scienze Biomediche Sperimentali e Cliniche (Sezione di Scienze Biochimiche dell’Università degli Studi di Firenze), di cui fanno parte anche le ricercatrici Roberta Cascella e Alessandra Bigi.

Cristina Cecchi, coordina un gruppo di ricerca che studia le malattie neurodegenerative presso il Dipartimento di Scienze Biomediche Sperimentali e Cliniche (Sezione di Scienze Biochimiche dell’Università degli Studi di Firenze)
Quali sono i primi segnali per l’Alzheimer?

«L’Alzheimer è caratterizzato da gravi disordini cognitivi, progressiva perdita della memoria, declino del linguaggio, profonde alterazioni del comportamento e della personalità. I primi segnali riguardano in particolare la perdita di memoria a breve termine, la sensazione di smarrimento al di fuori della vita familiare e una serie di piccoli cambiamenti comportamentali osservati dai propri cari. Successivamente i malati sviluppano progressivi deficit sia cognitivi che comportamentali, manifestando talvolta anche atteggiamenti ansiosi e aggressivi».

Qual è il decorso a cui di solito si assiste?

«Il decorso è lento e in media i pazienti possono vivere fino a 8-10 anni dopo la diagnosi».

Quanto influisce il progressivo invecchiamento demografico?

«Il progressivo invecchiamento demografico va di pari passo con la crescita del numero di malati: ciò rende questa malattia uno dei principali problemi socio-sanitari dei Paesi occidentali, con un enorme impatto medico, economico e sociale».

A quale età si presenta la malattia?

«L’età avanzata rappresenta il principale fattore di rischio per sviluppare il morbo di Alzheimer. La maggior parte delle persone alla quali è stato diagnosticato ha un’età superiore a 65 anni. Anche se meno frequentemente può insorgere fra persone di età inferiore ai 65 anni, spesso come forma familiare con trasmissione di mutazioni geniche. L‘insorgenza precoce è spesso mal diagnosticata».

Quanto incide la genetica?

«Sono state inoltre identificate diverse varianti geniche che aumentano la probabilità di sviluppare il morbo di Alzheimer, in particolare un polimorfismo del gene APOE-e4 è stato identificato in un quarto dei casi di Alzheimer».

Cosa si può fare per prevenirla o rallentarla?

«Solide evidenze scientifiche suggeriscono una serie di stili di vita per prevenire la demenza e l’Alzheimer. In particolare, una vita mentalmente attiva (attraverso la lettura e lo studio), la prevenzione di diabete, ipertensione, depressione, dei traumi alla testa e la gestione dello stress. Inoltre, un regolare esercizio fisico, il mantenimento del peso forma che aiuta anche a preservare una buona salute cardiovascolare anche in età avanzata. Non per ultimo, non fumare, dedicare il giusto tempo al sonno e prevedere un adeguato apporto di vitamina C nella dieta».

Come viene diagnosticata?

«Purtroppo, non esiste ancora un test ematico semplice per la diagnosi della malattia di Alzheimer, ma è richiesta una valutazione medica completa che include una serie di indagini. In particolare, l’anamnesi della famiglia del soggetto, un esame neurologico, una serie di test cognitivi per valutare la memoria e il pensiero, esami del sangue (per escludere altre possibili cause dei sintomi), imaging del cervello».

Qual è il ruolo dell’infermieristica in questa malattia?

«La progressione lenta e irreversibile dei sintomi richiede una gestione completa del soggetto, con attività sanitarie mirate alla stimolazione delle risorse cognitive e alla riduzione dei disturbi comportamentali. L’infermiere in tale contesto ricopre un ruolo fondamentale nell’attuazione di trattamenti finalizzati al mantenimento della dignità del paziente, a prescindere dal mutamento delle condizioni cognitive, graduali o immediate, dal cambiamento della personalità o dei comportamenti. L’infermieristica ha un ruolo chiave durante tutte le fasi della patologia, dalla diagnosi alla fase terminale, affinché il paziente conservi sempre la dignità di vita».

Quali progressi sono stati fatti in questi ultimi anni?

«Sebbene il meccanismo patogenetico che determina l’insorgenza della malattia di Alzheimer non sia ancora completamente noto, la degenerazione neuronale è attualmente associata alla presenza di placche extracellulari composte da aggregati della proteina β amiloide (Aβ), nonché dai grovigli neurofibrillari intracellulari formati dalla proteina Tau in specifici tessuti cerebrali. Le evidenze sperimentali degli ultimi decenni, sia ottenute dai nostri numerosi studi, che dalla comunità scientifica internazionale, suggeriscono che gli oligomeri piccoli e solubili generati dalla proteina Aβ, piuttosto che le fibrille mature, siano i principali agenti responsabili della neurotossicità. In particolare, è stato dimostrato che questi aggregati solubili tossici sono coinvolti in maniera cruciale negli eventi precoci della malattia di Alzheimer. Tuttavia, il loro isolamento e la loro caratterizzazione sono molto difficili, perché sono specie transitorie, eterogenee e poco concentrate nei fluidi biologici come liquor e sangue. Nel 2021 e 2023 sono stati approvati dall’FDA americana due nuovi farmaci, dopo circa 20 anni in cui non si registravano avanzamenti per il trattamento di questa patologia. Si tratta di due anticorpi monoclonali diretti contro Aβ e raccomandati nelle fasi precoci della malattia in quanto sembrano essere in grado di rallentare il declino cognitivo, senza però fermarlo o i revertirlo, e mostrando anche lievi effetti collaterali.

Come gruppo di ricerca universitaria di Scienze Biomediche quali risultati avete raggiunto?

«Abbiamo condotto uno studio finanziato nel 2020 dalla fondazione Airalzh, il cui obiettivo è stato quello di mettere a punto un nuovo test immunodiagnostico per la diagnosi precoce dell’Alzheimer, utilizzando un anticorpo a singolo dominio o nanobody in grado di rilevare gli aggregati neurotossici di Aβ nel liquido cerebrospinale dei pazienti rispetto ai soggetti di controllo. I risultati di questo studio sono stati molto incoraggianti, hanno infatti messo in luce la capacità dei nanobody di prevenire gli effetti neurotossici degli oligomeri di Aβ, dimostrando quindi capacità sia diagnostiche che terapeutiche».

Come di fatto può essere sfruttata una molecola contenuta nell’intestino degli squali per la cura dell’Alzheimer?

«Nel 2019, insieme a un team di ricerca internazionale, abbiamo scoperto che una molecola contenuta nell’intestino degli squali, chiamata “trodusquemina” è capace di prevenire gli effetti dannosi degli oligomeri di Aβ, aprendo quindi a nuovi orizzonti di ricerca, e in particolare all’avvio di trial clinici su pazienti con Alzheimer, ma anche di altre malattie neurodegenerative».

Quali lavori state portando avanti attualmente?

«La diagnosi precoce è fondamentale sia per trattare alcuni sintomi della malattia con le strategie terapeutiche attualmente disponibili sia in prospettiva dell’individuazione di terapie specifiche che, solo se attuate in fase precoce, potrebbero modificare il decorso della malattia. Attualmente siamo infatti coinvolti con Fabrizio Chiti, professore ordinario presso il nostro dipartimento, in uno studio multicentrico finanziato dalla regione Toscana e coordinato dal CNR di Sesto Fiorentino».

In cosa consiste?

«Ha lo scopo di elaborare una strategia di predizione personalizzata dell’andamento della malattia, basata sull’ipotesi che i principali precursori del morbo di Alzheimer possano formare aggregati specifici responsabili di quadri clinici distinti della malattia, con conseguente sensibilità differente ai farmaci. Le analisi biochimiche, biofisiche e spettroscopiche di biomarcatori molecolari presenti nel fluido cerebrospinale dei pazienti a vari stadi della malattia forniranno informazioni su composizione, struttura, livello di aggregazione e tossicità dei biomarcatori, con l’intento di generare un profilo proteomico per ciascun individuo».

Qual è dunque la prospettiva?

«Complessivamente, questo progetto rappresenta una prospettiva ad elevato impatto umano e socioeconomico, con vantaggi notevoli in differenti ambiti, incluso ridurre i costi del Sistema Sanitario Nazionale e migliorare il benessere della popolazione anziana nell’immediato futuro».

Alessandra Ricco

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