Giornata delle professioni sanitarie: la necessità di un cambiamento culturale

La riflessione di Danilo Massai, presidente dell’Ordine delle Professioni Infermieristiche Interprovinciale Firenze Pistoia

«Per migliorare il sistema sanitario è necessario realizzare processi di integrazione: per farlo, occorre oggi un grande cambiamento culturale». Ad affermarlo è Danilo Massai, presidente dell’Ordine delle Professioni Infermieristiche Interprovinciale Firenze – Pistoia in occasione della Giornata nazionale dei professionisti sanitari, sociosanitari, socioassistenziali e del volontariato, istituita nel 2021 per onorare il lavoro, l’impegno, la professionalità e il sacrificio dei professionisti sanitari. Un’occasione per ricordare e rendere omaggio a chi tutti i giorni lavora al fianco dei cittadini, ma che rappresenta un momento di riflessione sull’evoluzione delle professioni sanitarie.

«Le parole chiave sono “ottimizzare”, “integrare” e “valorizzare” – afferma Massai -. Il principale ostacolo all’integrazione è forse rappresentato dai saperi professionali. Il welfare dei servizi è infatti portatore di culture professionali specifiche (sanitarie e sociali) che negli anni si sono via via rese autonome le une dalle altre. Così il welfare dei servizi è andato strutturandosi più sui saperi disciplinari che sui bisogni di salute dei cittadini, dimenticando che la salute è un unicum costituito da tante diversità professionali. L’evoluzione delle professioni di cura, di aiuto, di assistenza, oggi non risiede tanto nell’acquisire maggiore competenza tecnica specifica (che certamente deve perfezionarsi sempre più), ma nel sapersi integrare dentro la rete formale dei servizi e con la rete informale del paziente. Oltre al cappello tecnico-professionale occorre cominciare ad agire verso il welfare di comunità, entrare in una logica di rete dove la struttura è completamente diversa da quella esclusivamente professionale».

Di fronte alle nuove domande di salute, serve quindi un nuovo professionista della salute. «Servono operatori capaci di leggere la complessità, di prendere in cura il problema e non solamente il sintomo o la malattia. Professionisti che abbiano padronanza di competenze tecniche specifiche, ma anche nozione del proprio limite e della necessità di interfacciarsi con le altre competenze professionali; capaci di lavorare in team e di riconoscere i nodi (spesso labili) della rete sociosanitaria territoriale, di attivarli e manutenerli. Operatori che sappiano essere autorevoli con il paziente, ma allo stesso tempo ascoltarlo e coinvolgerlo nel percorso di cura. Perché senza l’alleanza con il paziente e con le famiglie non si fa salute. Professionisti consapevoli che il proprio intervento è una parte, non il tutto, ma può comunque dare un contributo fondamentale ed essere fulcro dello sviluppo della comunità curante».

È fondamentale che le diverse professioni sociali e sanitarie non abbiano resistenza ad integrarsi. «Integrarsi non significa diluirsi nelle rispettive responsabilità, perché i servizi sanitari, al pari di quelli sociali, devono continuare a saper fare il proprio “mestiere”, ma collegandosi sempre più a un processo di lavoro che li accomuna. Integrarsi significa uscire dall’idea della mono-prestazione, per offrire prestazioni integrate o, meglio ancora, percorsi contestualizzati all’interno di una comunità curante. Si tratta infatti di saper ingaggiare altri attori sul territorio: in primis il paziente, la sua famiglia, la sua rete sociale, le associazioni, il volontariato, le cooperative sociali».

 

Ma come concretizzare questa integrazione? Come avvicinare sociale e sanitario? Come andare oltre divisioni che non favoriscono l’appropriatezza delle cure, né l’efficienza e l’equità del sistema? «È necessario partire dalle esigenze di salute della persona. Se parliamo di integrazione partendo dai fondamenti del sapere dei vari professionisti, il rischio è di accentuare gli elementi di contrapposizione, perché ogni professione ha percorsi formativi diversi e specifici. Se invece partiamo dall’esigenza di salute della persona assistita, con la sua famiglia e il suo contesto di vita, si dà un obiettivo comune ai diversi saperi professionali, attorno al quale essi possono integrarsi. È la logica dell’evidenza clinica che porta oggi a definire nuovi percorsi sociosanitari per le situazioni croniche e multiproblematiche. In questa prospettiva il soggetto curante smette di essere il singolo operatore, ma diventa una équipe con formazione, cultura, saperi differenti ma che si integrano, mettendo a disposizione l’uno dell’altro le proprie competenze professionali, perché il bisogno di salute di quella persona è complesso e richiede il contributo di tutti. Questo è il lavoro più difficile e al tempo stesso stimolante che si possa fare in un ambito professionale: fare si che le diversità non diventino avversità, ma complementarietà».

Il punto è ritrovare la visione globale della salute. «Per procedere verso la strada dell’integrazione – continua Massai – occorre ritrovare una visione globale della salute che spesso le professioni, chiuse nei confini dei saperi disciplinari, hanno un po’ smarrito. Si tratta di una riscoperta che può essere molto gratificante per i diversi professionisti. Nell’esperienza delle Case della comunità ad esempio, che intendono essere una traduzione organizzativa di questa visione integrata della cura ed assistenza, lavorano fianco a fianco medici di medicina generale, specialisti, infermieri, operatori sociali. Grazie alla compresenza, la lettura dei bisogni del cittadino-persona nella sua complessità sanitaria e sociale può trovare in questi servizi orientamento, presa in carico e cura. Ma la visione globale della salute deve spingere gli operatori sociali e sanitari a reinterpretare la propria identità professionale dentro una prospettiva di benessere di comunità, che è la ragione per la quale è stato istituito quel grande sistema di aiuto, cura, educazione che ha il nome di “welfare” e che qualifica come democratica una società. Per fare salute occorre dedicarsi di più a “pensare” la salute dei cittadini. È il cuore di un welfare di iniziativa, che non si limita ad aspettare le persone dentro gli ambulatori ma che sa accogliere i cambiamenti in atto nell’epidemiologia della popolazione».

Il welfare dei servizi, quindi, deve allentare le proprie difese. «Deve portare al proprio interno l’opinione, il parere, le proposte dei cittadini, e con un ascolto intelligente anche riorganizzare i propri servizi. La salute è oggi anche un fatto di democrazia partecipata e diretta, che va governato con tecniche di community lab, di ascolto sociale. Con una ricerca non sondaggistica di ciò che pensano i cittadini e con un’apertura dei servizi a una visione della salute e della cura che ne renda porosi i confini. I servizi devono avere un’utilità di servizio per un territorio. Questa consapevolezza, che ha permesso lo sviluppo del welfare nel nostro Paese, deve continuare a sostenerci nel custodirne e progettarne il futuro».

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