PNRR e futuro dell’infermieristica: intervista all’infermiera dott.ssa Marcella Gostinelli

L’Infermiera dottoressa Marcella Gostinelli risponde con una intervista alla presidente Barbara Mangiacavalli, intervistata il 4 maggio da Giulio Nisi e pubblicata su Quotidiano Sanità.

Verranno utilizzate le stesse domande fatte alla presidente Mangiacavalli affinché si possa rilevare un pensiero diverso fra  gli infermieri rispetto a quello della rappresentanza professionale. Abbiamo chiesto alla Infermiera Dottoressa Marcella Gostinelli come giudica il PNRR.

Dottoressa, come giudica il Recovery Plan rispetto al rilancio dell’assistenza sul territorio?

«Non credo che sia un rilancio della assistenza sul territorio, perché a fronte di dichiarazioni di prossimità e integrazione non c’è una vera partecipazione sociale, ma solo del terzo settore, non ci sono organizzazioni a flusso, interconnesse da relazioni di tipo dipartimentale, quindi il rilancio dell’assistenza sul  territorio nasce già con la logica strutturale divisionale e quindi non assistenziale».

Non promosso quindi?

«A  differenza della presidente Barbara Mangiacavalli penso che il PNRR, così come pensato, e a una lettura più profonda, non parli esattamente la lingua degli infermieri perché non parla principalmente la lingua dei cittadini, in particolare di coloro che hanno già problematizzato il  bisogno di salute, resosi anche complesso a causa dell’implicazione sociale, originaria o no, dello stesso. Gli infermieri sono convinti che si debbano unire piuttosto che separare le componenti,  sociale e sanitaria, del bisogno di salute. L’aver posto gli anziani non autosufficienti e i disabili fuori dal Ministero della Salute e averli collocati sotto il Ministero del Lavoro, significa non riconoscerli quali soggetti di una comunità con bisogni reali, o potenziali, di salute universali. Significa discriminarli attraverso un criterio in cui la vecchiaia è considerata un disvalore e la disabilità un onere sociale. Una comunità così intesa non è una comunità civile organizzata, ma discriminata, in cui si delega l’assistenza di un gruppo di popolazione “onerosa”,“scomoda” al privato, al terzo settore, mediante contrattazioni di pacchetti predefiniti di risposte assistenziali (da 2 a 15)».

 

Con la dicitura Case di Comunità si vuole fare intendere ciò che nei fatti non è. Contrariamente a quanto Mangiacavalli dice, il PNRR non entra nel merito dell’assistenza, nei contenuti, nei modi di essere infermiere. La Presidente, così dicendo, sembra interessata solo a quella parte di infermieri dell’area medio dirigenziale (coordinamento, dirigenza, gestione) ma degli infermieri cosiddetti di linea o generalisti si è proprio dimenticata, dicendo che il PNRR parla la lingua degli infermieri. L’assistenza continua diretta non sembra essere per Mangiacavalli “merito”, “contenuto”, “assistenza”, delegandola al terzo settore, alle cooperative, i contratti delle quali sappiamo essere penalizzanti rispetto a quelli pubblici. Non so come la nostra Presidente possa considerarsi soddisfatta.

Per me, e non solo, quindi non è promosso e proprio gli infermieri dovrebbero lamentarsene perché penalizza la componente assistenziale, di prossimità. L’infermieristica non è solo coordinamento, dirigenza e gestione».

 

Che infermiere sarà quello che dovrà muoversi in questo modello?

«A questa domanda la Presidente risponde: “l’infermiere è quello di sempre. Adeguatamente formato dal punto di vista clinico e manageriale e assolutamente in posizione di rilievo per quanto riguarda la compliance, l’assistenza, l’ascolto e la soddisfazione dei bisogni dei pazienti”.

Anche se condividessi la soddisfazione per il PNRR della Presidente, la sua risposta a questa domanda la riterrei contraddittoria e fuorviante. Se l’infermiere è quello di sempre significa che Mangiacavalli non si accorge che l’infermiere nelle prassi non è quello che la normativa dichiara essere; significa che il profilo attuale, indefinito, generico, contraddittorio rispetto alla legge 42 del 99, 251 del 2000 e via aggiungendo, che ci definiscono professionisti e quindi autonomi, non è anacronistico e va bene così ed è giusto che la professione infermieristica possa esercitarla  chiunque perché priva di specificità. Il profilo è stato definito prima delle leggi che hanno riconosciuto responsabilità e autonomia e per questo nel profilo non si parla di autonomia, ma solo di responsabilità e non si è mai sentito il bisogno di modificarlo, rivederlo, aggiornarlo almeno dal  99. Mangiacavalli non può non accorgersi che è almeno anacronistico quel profilo. Mangiacavalli sembra avere idee molto chiare e mente lucida. È evidente che a lei degli infermieri generalisti definiti simplex dal Del Vecchio (componente esperto dell’Advisory Group) non  importa, per lei l’infermiere nasce con le specializzazioni e quindi la connotazione disciplinare nasce con esse o con il coordinamento o la dirigenza. La specificità disciplinare, alla faccia delle nostre teoriche e teorie, nasce non con la formazione di base, ma con le specializzazioni. È chiaro che l’orientamento che vuole portare è quello di un infermiere tecnico esperto in tecnica assistenziale. Chissà cosa penserebbero quelli della Scuola dei bisogni che hanno considerato l’infermieristica una scienza umanistica, prescrittiva e dialogico-strategica; oppure la stessa professoressa Loredana Sasso che con il suo bellissimo studio RN4cast ha messo in evidenza le tantissime, troppe attività e cure infermieristiche perse (Missed care), o la teorica Lenninger  che riconosce i bisogni come universali, ma i metodi per soddisfarli decisamente diversi da soggetto a soggetto, i processi transculturali poco hanno a che fare con le tecniche e con i saperi tecnico scentifici, ma sono più relativi ai linguaggi, alla comunicazione, alla antropologia e di questi saperi i nostri ordinamenti didattici sono poco arricchiti. Io credo invece che dovremmo rivisitare gli ordinamenti, portare gli anni di formazione universitaria di base almeno a 4 e credo che dovremmo arricchirci della conoscenza noetica, rivalutare il pensare e le epistemologie proprio per mantenere la connotazione di una scienza umanistica, prescrittiva e dialogica e non diventare dei “paramedici” o piccoli medici».

Quindi non è di fatto un infermiere di prossimità quello del PNRR, ma piuttosto un infermiere con prestazione di coordinamento e di gestione?

«Sembra esattamente così, e cosi d’altra parte la presidente Mangiacavalli risponde nella sua intervista. La prossimità non è garantita dalla presenza di strutture sul territorio, ma è garantita da un macrosistema di relazioni i cui nodi di rete principali dovrebbero essere assicurati da infermieri con un servizio di accoglienza di comunità (tutta non discriminata) quello di accoglienza ospedaliera, sempre infermieristico, la regione, e l’ente comunale che nel PNRR non viene neanche rammentato. Nodi che svolgono in questa rete il ruolo politico per la tutela della salute, favorendo libere iniziative dei cittadini considerati non più obbedienti e consenzienti, supportati nell’informazione dalla regione e dall’ente  comunale. A livello di struttura ospedaliera poi dovrebbero essere presenti tanti nodi di rete in relazione ai percorsi e alle funzioni infermieristiche; oltre a una componente classica con un bancone la prossimità richiederebbe una componente assistenziale decentrata nei luoghi della comunità di riferimento, lavoro, scuole, famiglie, nei luoghi di aggregazione. Questa funzione di mediatore sociale ci permetterebbe anche di conoscere il bisogno sommerso, di occuparci degli indicatori non solo prossimali, ma anche esistenziali, distali per la lotta alle disuguaglianze. Invece la prevenzione sembra che non sia neanche contemplata. La struttura epistemica, conoscitiva dell’infermieristica, la conoscenza da indagare avviene attraverso un consapevole processo ermeneutico che richiede necessariamente prossimità  e non strutture giustapposte».

 

La presidente Mangiacavalli nella sua intervista dice che lo sviluppo dell’assistenza infermieristica deve prevedere la realizzazione delle  specializzazioni e della loro infungibilità, deve prevedere lo sviluppo di uno skill mix sano che rispetti le peculiarità delle singole professioni  e non permetta che l’una invada il terreno dell’altra o che l’una si sovrapponga ai compiti dell’altra. Lei che pensa a proposito?

«Penso che gli infermieri dovrebbero essere chiamati a discutere insieme per capire qual è il dominio dell’infermieristica; capire se è limitato dalle specializzazioni e se sì quali sono o se l’infermieristica di base ha già in sé il sapere infungibile e specifico e manchi solo di esercitarlo. Capire se la nostra è una scienza umanistica e se sì come conosce l’uomo, come prescrive e cosa. La Presidente nella sua intervista dice che l’evoluzione degli infermieri passa attraverso la facoltà di prescrivere autonomamente se non i farmaci etici quelli di autodeterminazione facendo riferimento gli altri  paesi europei. Io credo che la prescrizione infermieristica stia nell’assistenza infermieristica e che di per sé non rappresenti un’evoluzione. L’evoluzione per me sta nello sviluppo delle potenzialità assistenziali infermieristiche dentro le quali la prescrizione rappresenta una risorsa, l’evoluzione consiste nel decidere cosa prescrivere e non la prescrizione in quanto tale; lo skill mix definito sano dalla presidente Mangiacavalli a mio avviso è quello orizzontale, a partenza infermieristica e a sviluppo infermieristico senza nulla rosicchiare alla professione medica (skill mix verticale). Le attività semplici, che già facciamo, di tipo medico, costituiscono una possibilità di approfondimento tecnico il cui obiettivo però è del medico e senza la sua indicazione/prescrizione l’infermiere non può agirla pertanto non può essere dominio infermieristico. Altra cosa è il modo in cui mi relaziono con la tecnica e anche con il paziente a cui la tecnica somministro: pertanto lo specifico sarà il modo in cui esercito la tecnica prescritta dal medico. Modo che dovrebbe costituire la specificità infermieristica presente di base e non acquisibile mediante specializzazioni che dovrebbero approfondirla, consolidarla e che dovrebbero garantire la riconquista di quelle “missed care” delle quali Loredana Sasso evidenziava la non presenza.

Personalmente non ho gradito l’istituzione di un Advisory board costituito da personalità famose e senza neanche un infermiere clinico. Lasciare che a definire cosa chiedere come infermieri per il Recovery siano personalità autorevoli e non considerare gli infermieri clinici ha dimostrato una grande debolezza strategica. Personalmente, con il rispetto dovuto alla persona e alla competenza del professor Garattini non sono d’accordo con quanto ha dichiarato: credo che la specificità e l’evoluzione della professione infermieristica non siano ottenibili con la prescrizione di farmaci da automedicazione; credo che la prescrizione sia uno strumento,ma non ciò che ci renderà infermieri infungibili».

 

E degli ospedali di comunità cosa pensa?

«Il fatto che gli ospedali di comunità siano a gestione infermieristica non è sufficiente per sentirmi soddisfatta del PNRR. Fare gli ospedali di comunità senza aver prima riformato l’ospedale e i modi di essere dentro gli ospedali non ha molto senso. Cavicchi dice in apertura del forum su Quotidiano Sanità sugli ospedali che l’ospedale come servizio e come bene è al minimo della sue possibilità e ha ragione. Se gli ospedali sono al minimo delle loro possibilità, senza nulla cambiare, anche gli ospedali di comunità come servizi e beni daranno il minimo. Personalmente sarei stata più soddisfatta se avessimo ripensato l’ospedale rendendolo meno impersonale, più relazionale, capace di accogliere un ospite invece che un corpo da ricoverare come è oggi considerato il malato. E anche se avessimo pensato a rivedere le tutele e tutto il concetto di prevenzione, per niente considerato nel PNRR. Come si può essere soddisfatti pensando solo a “NOI” o meglio a una parte di “NOI”infermieri. Provo anche un certo imbarazzo a leggere con quanta superficialità è stato valutato il PNRR dalla FNOPI, quando persone come il dottor Palumbo e tanti altri si sono espressi mostrando non poche perplessità».

 

La Presidente Mangiacavalli però ritiene che i pazienti saranno soddisfatti e cita una loro affermazione.

«Io, per problemi di salute personali e di parenti e amici ho visitato molti ospedali e posso dirle che i pazienti purtroppo prendono quello che diamo loro… non immaginano che potremmo dare loro non il minimo, ma il massimo della cura. Non c’è un malato che entri in ospedale oggi e che non abbia paura. Aver paura ad andare in ospedale oggi non è riconducibile solo alla presenza di un virus altamente contagioso e capace di mettere a rischio la vita, ma all’impersonalità, non relazionalità di un sistema che neanche s’interroga sul fatto che oggi un malato non è neanche un ricoverato, ma per certi aspetti è un “prigioniero” di regolamenti e comportamenti che con l’ospedale inteso come luogo, servizio di cura non dovrebbero avere niente a che fare».

 

Perché secondo lei gli infermieri non riescono a essere infermieri? Ritiene anche lei come Mangiacavalli che la colpa sia dell’atteggiamento ormai obsoleto e inutile di altri soggetti del mondo sanitario che tendono a sminuire una professione come quella infermieristica?

 

«No, assolutamente. Io credo che la responsabilità sia essenzialmente di chi ci rappresenta ai diversi livelli: dirigenziale, professionale e anche sindacale. Nessuna di queste figure dirigenziali ha mai realmente fatto qualcosa perché l’infermiere fosse. Questo PNRR, o meglio la sindemia Covid avrebbe potuto essere l’occasione per ascoltare gli infermieri clinici, renderli autorevoli, farli progettare e affrontare discutendone la questione infermieristica. Invece si crea un Adisory board senza infermieri clinici, di linea e ci si dichiara soddisfatti di quanto l’Advisory board ha prodotto. Non ci renderà autorevoli un parere di Garattini o di Benato o Del Vecchio, ci renderà autorevoli la specificità del nostro operato. Degli infermieri alla Fnopi sembra non interessare nulla e non si può dare la responsabilità ai medici se fra infermieri, Oss, badanti nelle prassi vi è poca o punta differenza. Invece, un po’ di responsabilità ce l’hanno anche gli infermieri. Non si assiste in un servizio dove è contemplato il minimo. Un chirurgo con il bisturi mal funzionante non opera e pretende che funzioni, l’infermiere non pretende di assistere, assiste come può. Questo per un professionista dovrebbe essere inaccettabile».

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